“Codice Rosso”: la legge 69/2019 tra novità legislative e inasprimenti sanzionatori a tutela delle fasce deboli

La recente entrata in vigore della legge 69/2019, nel linguaggio corrente noto come “Codice Rosso”, ha comportato la modifica del codice penale e di procedura penale, nonché l’introduzione di alcune fattispecie delittuose, create al fine di tutelare con maggiore efficacia le vittime delle cosiddette “fasce deboli”, quali donne e minori.           

I principali obiettivi della novella legislativa possono essere così riassunti: tempi di indagine brevi, inasprimento delle pene e delle sanzioni per gli autori di reati di violenza contro le donne e minori e, più in generale, una tempestiva risposta dell’Autorità Giudiziaria procedente in caso di ricezione di querela per uno dei sopradetti delitti.       

Le modifiche più significative, nei termini appena chiariti, hanno riguardato in particolar modo i reati di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), violenza sessuale (art. 609 bis e 609 ter c.p.), atti sessuali con minorenni (art. 609 quater c.p.), corruzione di minorenne (art. 609 quinquies c.p.), violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.), atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e lesioni personali (art. 582 c.p.) nelle ipotesi aggravate di cui agli artt. 576 co. I n. 5 e 5.1, co. I e co. II c.p. Per le fattispecie finora elencate la legge 69/2019 prevede una corsia preferenziale, in forza della quale il Pubblico Ministero deve essere immediatamente informato attraverso apposita comunicazione di notizia di reato, indipendentemente da specifiche ragioni di urgenza. 

Acceso dibattito tra i giuristi ha suscitato il disposto di cui all’art. 362 co. I ter c.p.p. così come modificato dalla legge in esame. La novella ha infatti introdotto per il Pubblico Ministerio un termine perentorio di tre giorni, decorrenti dall’iscrizione della notizia di reato, entro i quali l’Autorità Giudiziaria procedente deve assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia/querela per i reati sopra elencati. Tale tempistica, se da un lato impone un’accelerazione dei tempi di indagine o, meglio, di avvio delle indagini permettendo quindi di “blindare” l’accusa, dall’altro, tuttavia, rischia di privare il magistrato requirente della discrezionalità e autonomia che lo stesso ordinamento gli conferisce, instaurando un meccanismo che vedrebbe come eccezione ciò che in un sistema di giustizia che funziona e che rispetta il dettato costituzionale, dovrebbe costituire la regola: procedere per tutti i reati di violenza agita nei confronti di donne e minori in tempi brevissimi.

Prevedere l’obbligo normativo per il Pubblico Ministero di escutere la persona offesa nel termine di tre giorni dalla ricezione della notizia di reato, in tutti i casi, indipendentemente dalle esigenze sentite dal singolo magistrato, significa dover accettare il rischio che la genuinità della prova, in talune ipotesi, venga compromessa da una pluralità di audizioni della vittima. Se il magistrato dovesse ritenere di dover escutere un minore ad incidente probatorio, ad esempio, potrebbe essere sconsigliata una sua audizione nei primi tre giorni, proprio al fine di conservare e non contaminarne la testimonianza. Per tale motivo, l’art. 362 co. I ter c.p. prevede due casi in cui l’Autorità Giudiziaria può evitare di ascoltare la vittima nel termine sopra indicato: nel caso in cui sussistano imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni 18 o nel caso in cui vi siano imprescindibili esigenze di tutela della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa.
Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura ha evidenziato che il termine dei tre giorni, così come introdotto dalla legge 69/2019, è forse la criticità più rilevante della novella: un automatismo che «rischia di creare un inutile disagio psicologico alla vittima e un appesantimento difficilmente gestibile per gli uffici giudiziari e le forze di polizia».  Risentire a distanza di pochi giorni una donna che ha sporto denuncia «non solo è inutile ma determina in suo danno proprio quella vittimizzazione secondaria di tipo processuale che la normativa sovranazionale raccomanda di evitare». Il Consiglio continua affermando che spesso le donne a lungo maltrattate «oppongono omertà» e anche quando hanno presentato denuncia «non è raro che, risentite subito dopo, manifestino remore e ripensamenti, minimizzando o addirittura ritrattando le precedenti dichiarazioni». La norma, quindi, «non appare tener conto delle reali capacità degli uffici giudiziari requirenti di provvedere ad adempimenti di tale delicatezza in tempi così ristretti», chiosano i Consiglieri che, ricordando i carichi di lavoro «mediamente elevati» delle Procure, chiedono la «riformulazione» della norma.[1]         
Invero, alcuni Uffici Giudiziari di rilevanti dimensioni, come ad esempio la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, hanno evidenziato le difficoltà che il termine di tre giorni imposto ai magistrati dalla novella potrebbe creare. Il “Codice Rosso”, infatti, incentivando le donne a sporgere denuncia o querela, in alcuni casi, rende complesso per le Autorità Giudiziarie requirenti discernere le denunce che realmente meritano una corsia preferenziale perché sottese a reati gravi dalle querele che, pur avendo ad oggetto le fattispecie delittuose per cui è previsto il termine sopra indicato, non possono qualificarsi come “casi urgenti”.        
Seppur perentorio, all’interno dello stesso testo normativo di recente entrata in vigore, nulla si dice in merito all’ipotesi in cui il Pubblico Ministero non dovesse rispettare il termine imposto dalla stessa legge. Pertanto, la domanda che ci si appresta a porre attualmente non trova una risposta compiuta, ma è d’obbligo alla luce delle riflessioni sopra svolte: il mancato rispetto da parte dell’Autorità Giudiziaria procedente del termine di tre giorni dalla ricezione della notizia di reato per i delitti indicati dalla novella legislativa, ha delle conseguenze in termini di sanzioni disciplinari per il magistrato? Dal testo della legge niente si evince in tal senso. Pertanto, ci si chiede se abbia valore un termine perentorio che, nel caso in cui non venisse rispettato, non darebbe comunque luogo ad alcuna sanzione.     

Il testo normativo di nuova genesi ha altresì permesso al legislatore di introdurre nel codice penale nuove fattispecie di reato. Ne costituiscono esempio il delitto di “Revenge Porn”, previsto all’art. 612 ter c.p. e l’autonoma fattispecie punita dall’art. 583 quinquies c.p., rubricata "Deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni personali permanenti al viso". Tuttavia, proprio in riferimento all’introduzione di nuove e autonome tipologie di reati, la legge 69/2019, a parere di chi scrive, potrebbe a volte rendere più complesso il lavoro dell’Autorità Giudiziaria, sia in fase di indagine che in fase processuale. La novella ha infatti qualificato talune condotte, prima ascrivibili a reati già esistenti o anche a circostanze aggravanti dei medesimi, come autonome fattispecie delittuose. Tale fenomeno rischia, tuttavia, di creare dei “doppioni” e di generare confusione nella contestazione dei singoli reati.         

Il nuovo art. 558 bis c.p., ad esempio, rubricato “Costrizione o induzione al matrimonio” punisce la condotta di chi, con violenza o minaccia, costringe taluno a contrarre matrimonio o unione civile. La riflessione che in tale sede si impone vuol mettere in luce il dato per cui gli elementi della violenza e della minaccia, costitutivi del reato di cui all’art. 610 c.p., oggi, in forza dell’introduzione operata dalla novella, hanno assunto una direzionalità: in altri termini, la violenza e la minaccia rilevano non se meramente strumentali alla costrizione di taluno, bensì se funzionali alla costrizione di taluno al matrimonio o all’unione civile.  Pertanto, il magistrato, laddove ricorrano gli elementi costitutivi del nuovo art. 558 bis c.p., dovrà contestare soltanto tale reato, non potendo concorrere il reato de quo con quello di violenza privata, essendo con quest’ultimo in un rapporto di specialità nel senso sopra chiarito. Tale fenomeno potrebbe creare indecisione e difficoltà alla Polizia Giudiziaria nel deferimento degli indagati, poiché il distinguo tra le due norme sopra richiamate, forse, non è di immediata comprensione.   

La medesima situazione si potrebbe creare nel caso in cui debba contestarsi il reato di cui al nuovo art. 583 quinquies c.p. che la legge 69/2019 ha titolato “Deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni personali permanenti al viso”. L’aspetto pregevole della novella è quello di aver creato un’apposita previsione normativa per prevenire e punire quelle condotte che, ante riforma, erano sussumibili nella circostanza aggravante di cui all’art. 583 co. II n. 4. È da osservare, inoltre, come le sanzioni applicabili alla violazione della nuova norma siano maggiori rispetto a quelle previste dal precedente art. 583 co. II n. 4 c.p., con una conseguente valorizzazione della funzione general - preventiva, peculiare caratteristica del diritto penale.  
Se da un lato, dunque, non sono assenti i vantaggi e i buoni intenti che hanno animato tale introduzione nel codice penale, dall’altro, tuttavia, una simile operazione potrebbe creare incertezze laddove si dovesse contestare il reato di nuova genesi che, appunto, è un distinto reato e come tale punito e sanzionato autonomamente rispetto a una delle circostanze aggravanti previste all’art. 583 c.p.          
Dalla difficoltà di contestazione e, quindi, dall’errore che da essa potrebbe scaturire, conseguirebbe la mancata integrazione del reato che si è contestato nella comunicazione di notizia di reato o nella richiesta di rinvio a giudizio. Nel primo caso, dunque, il Pubblico Ministero, qualora verificasse che effettivamente il reato ascritto all’indagato non risulta integrato nei suoi elementi costitutivi, dovrà chiedere al Gip l’archiviazione del procedimento poiché “il fatto non sussiste” . Nel secondo caso, il Giudice competente ha il dovere di prosciogliere l’imputato pronunciando sentenza di non luogo a procedere con la medesima formula assolutoria. Laddove invece o in fase di indagine o in fase processuale l’Autorità Giudiziaria procedente dovesse accorgersi che il reato originariamente contestato non viene integrato nei suoi elementi costitutivi, sussistendone un altro per cui è prevista una pena edittale più bassa, si procederà ad una derubricazione del reato de quo

Merita menzione anche il nuovo reato introdotto dal “Codice Rosso” di cui all’art. 612 ter c.p., conosciuto come “Revenge Porn”. Si tratta di una nuova fattispecie delittuosa rubricata “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” e strutturata in due distinte ipotesi. L’art. 612 ter c.p. prevede il medesimo trattamento sanzionatorio per l’invio, la consegna, la cessione, la pubblicazione e la diffusione di immagini o video dal contenuto sessualmente esplicito. I due commi della norma di nuova genesi, seppur indicando la medesima pena per le diverse condotte sopra richiamate, operano un distinguo in forza delle modalità con cui l’agente è entrato in possesso delle immagini o dei video che, poi, ha divulgato. Il primo comma richiede che il reo si sia impossessato delle immagini sottraendole a qualcuno o contribuendo alla loro realizzazione; nel secondo comma, invece, ai fini della punibilità, è sufficiente che il diffusore le abbia ricevute o acquisite in altro modo. Il novero di condotte comprendenti l’invio, la consegna e la cessione di foto riguarda, senza dubbio, l’ipotesi di trasferimento di immagini e video tra due persone. Nel caso di diffusione e pubblicazione, invece, il riferimento è a quei casi in cui le immagini o i video vengono “postati” sui social network, siti pornografici e altre piattaforme online.  
Con l’emendamento il legislatore ha voluto tentare di contrastare la “viralità” delle immagini, caratteristica precipua dell’odierna pornografia non consensuale.        
Connotato imprescindibile e denominatore comune alle condotte sia del primo che del secondo comma è il “contenuto sessualmente esplicito” delle immagini, richiesto dalla norma. Tuttavia, esso non è il solo. Occorre infatti, affinchè possa dirsi integrato il reato de quo, che i file siano stati creati in un contesto di riservatezza, nel quale sarebbero rimasti qualora non fossero intervenute le condotte tipiche sopra elencate.            
Ad un’attenta osservazione si evidenzia che le condotte annoverate nel nuovo 612 ter c.p., già prima che intervenisse la legge 69/2019, erano previste e punite nel nostro ordinamento seppur, forse, non in forme adeguate. Ci si riferisce al reato di diffamazione di cui all’art 595 c.p. e a quello di illecito trattamento dei dati personali di cui all’art. 167 Dlgs 196/2003.      
L’aspetto più problematico del nuovo reato, a parere di chi scrive, emerge da un’attenta analisi del comma II del medesimo disposto. Il testo normativo in questione prevede l’inflizione della pena solo nel caso in cui colui che riceve le immagini e/o i video dal contenuto sessualmente esplicito sia animato dallo specifico intento di “recare nocumento”. Tale specificazione dell’intenzione e della volontà comporta tuttavia una minore efficacia del carattere preventivo e afflittivo della norma.  
Al comma III l’art. 612 ter c.p. enumera due circostanze aggravanti. Se nella prima non si rileva grande distanza da ciò che caratterizza il delitto punito e previsto dall’art. 612 bis c.p. – “ la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”- è nella seconda previsione di aggravamento di pena che si interrompe il nesso analogico che ha avvicinato le due fattispecie, prevedendo un inasprimento sanzionatorio qualora “ i fatti siano commessi attraverso strumenti informatici o telematici.”  È in queste poche – ma precise - parole che il “Revenge porn” acquista una sua autonomia normativa.
Il reato di “Stalking” infatti può ben prescindere, affinchè possa dirsi integrato nei suoi elementi costitutivi, dall’uso di strumenti informatici e telematici. Il nuovo reato introdotto dalla legge 69/2019, invece, concentra la sua carica offensiva proprio sull’uso delle tecnologie digitali, rendendo fin troppo semplice la sua realizzazione.          
La peculiare modalità di attuazione della condotta punita dal “Revenge porn” lascia spazio ad alcune riflessioni inerenti la tutela del diritto all’oblio di tutte le persone ritratte nelle immagini o riprese nei video. Qual è la destinazione di quei file? E la sorte dei visi e dei corpi immortalati tramite riprese o fotografie? La risposta a tali domande non è di certo rassicurante, nonostante la Corte di Giustizia dell’Unione Europea abbia sancito il diritto di ognuno a “richiedere […] la rimozione dall’indicizzazione delle pagine che lo riguardano dai motori di ricerca.” [2]. Seppur venga dunque riconosciuto anche dalla giurisprudenza sovranazionale il diritto all’oblio, di fatto esso è stato ed è tuttora lesionato e violato proprio dalle condotte di chi si appresta a diffondere, pubblicare, “postare” foto e video di persone nella loro intimità.      
Si pensi al caso di Tiziana Cantone che, nel 2015, ha deciso di togliersi la vita per un video hard diffuso in rete che la vedeva protagonista. Il video che l’ha resa tristemente nota era un filmino dal contenuto sessualmente esplicito girato, quasi per gioco, con un coetaneo, la cui diffusione è divenuta virale. La donna veniva anche ripresa mentre pronunciava la frase: “stai facendo un video? Bravo!” A nulla è valsa la sentenza a suo favore del Tribunale di Napoli per la rimozione dai social network Facebook e Youtube dei contenuti che la vedevano protagonista. È evidente che gli strumenti di tutela offerti dall’ordinamento italiano, soprattutto di natura civilista qualora non vengano integrati reati, siano insufficienti e non idonei a garantire un diritto di tutti, quale quello all’oblìo.        
L’avvento di Internet e delle tecnologie di ultima generazione permettono di raggiungere, con immagini o video, platee di migliaia di persone in pochi secondi. Pertanto, coerentemente con lo sviluppo della realtà, anche il diritto ha tentato di adeguarsi apprestando una tipo di tutela “al passo con i tempi”.  
L’obiettivo dell’introduzione nel codice penale dell’art. 612 ter c.p. è proprio questo: fornire strumenti per prevenire e punire fenomeni che, se prima erano inesistenti, oggi sono dilaganti. All’esito di questo excursus normativo è bene evidenziare che, comunque, gli obiettivi e gli intenti che caratterizzano la nuova legge sono pregevoli e volti ad accordare una tutela adeguata ed efficace a soggetti vittime di reati odiosi i quali, fino ad oggi, venivano perseguiti in modo lento e poco incisivo. La novella, assicurando tempi di indagine brevi e protezione immediata alle persone offese, vuole anche incentivare le vittime di tali abusi a denunciare quanto da loro subìto. Il “Codice Rosso” è tuttavia uno strumento che, seppur animato da nobili propositi, potrebbe prestare il fianco ad interpretazioni errate in quanto, come già detto, alcune disposizioni non risultano chiare né ben coordinate con quelle già esistenti. L’auspicio che ai presenti fini residua è quello per cui dall’applicazione della nuova legge scaturisca, per le fasce che la stessa novella intende tutelare, una protezione efficace e concreta, nonostante qualche lacuna normativa e previsione non attenta.


Dott.ssa Silvia Scotucci



[1] Il Consiglio Superiore della Magistratura ha palesato forte scetticismo al riguardo, valutando l’introduzione del termine perentorio di tre giorni una rigidità non necessaria nel nostro sistema di diritto. Così si legge su www.letteradonna.it

[2] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 13 maggio 2014, C-131/12