Gli elementi costitutivi della colpa

Ai sensi dell’art. 42, comma 2, c.p., nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvo i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge. Come previsto dall’art. 43, comma 3, c.p., il delitto è colposo o contro l’intenzione quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Tra gli elementi costitutivi della colpa, dunque, rientra in primo luogo la mancanza di volontà dell’evento. Affinché sussista il requisito della non volontarietà dell’evento, ovviamente, occorre che il soggetto non lo voglia direttamente né accetti il rischio del suo verificarsi, in quanto diversamente si giustificherebbe un’imputazione a titolo di dolo eventuale. Anche con riguardo alla colpa si ravvisa l’insufficienza della definizione legislativa, la quale, facendo riferimento al solo evento, non consente di ricomprendervi i reati di mera condotta.; così come in tema di dolo, pertanto, appare più corretto identificare la caratteristica della colpa nella mancanza di volontà del fatto. Oltre che dalla non volontarietà dell’evento, la colpa si caratterizza per la violazione di regole precauzionali di condotta, le quali possono avere una fonte sociale o giuridica. A loro volta, le norme cautelari possono distinguersi in rigide ed elastiche: le prime predeterminano in modo assoluto la regola di condotta da osservare; le seconde, invece, presuppongono che la regola di condotta sia individuata in base alle circostanze del caso concreto. Come osservato dalla dottrina, l’inserimento dell’inosservanza del dovere obiettivo di diligenza tra gli elementi della tipicità del fatto colposo consente di evitare la tendenza ad attribuire, sul terreno della colpa, peso decisivo alla sola causazione materiale dell’evento, nonché di rafforzare la funzione di tutela dei beni giuridici e di evitare che possano pretendersi dal singolo comportamenti che vanno al di là delle normali capacità di prestazione proprie dell’uomo medio. La violazione delle regole precauzionali derivanti dall'esperienza della vita sociale, ovvero di tutte quelle prescrizioni che, sebbene non scritte e dunque non espresse in una specifica norma giuridica, devono ritenersi comunque operanti in una data situazione o contesto, configura la colpa c.d. generica. Tale categoria di colpa si articola in tre differenti tipologie di condotta: si ha “negligenza’’, in particolare, se la regola cautelare violata prescrive un’attività positiva; si ha invece “imprudenza’’, quando dalla regola di condotta violata discende l’obbligo di non realizzare una determinata azione oppure di compierla con modalità diverse da quelle tenute; l’ ’’imperizia’’, infine, consiste in una forma di imprudenza o negligenza qualificata e si riferisce ad attività che esigono particolari conoscenze tecniche e/o scientifiche da parte dell’agente (ad esempio, l’attività medico/chirurgica). La valutazione penalistica delle diverse forme di colpa generica risente, talvolta, di condizionamenti legati alle caratteristiche degli ambiti considerati. Con specifico riferimento alla responsabilità medica, ad esempio, parte della giurisprudenza distingue a seconda che si tratti di negligenza, imprudenza, ovvero di errore dovuto ad imperizia: mentre nei primi due casi, infatti, la colpa del medico andrebbe accertata in base alle regole generali, con la conseguenza di una possibile rilevanza penale anche della colpa lieve, nell’ipotesi di “imperizia’’ l’errore del medico sarebbe invece penalmente censurabile soltanto se rientrante nei limiti della colpa grave. A giustificazione dell’assunto si richiama l’art. 2236 c.c., secondo il quale, ove la prestazione implichi la soluzione di problemi di particolare difficoltà, il prestatore d’opera intellettuale risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave. Allo scopo di evitare il rischio che un abbassamento del grado di perizia esigibile dal sanitario comporti un’eccessiva indulgenza, tuttavia, si è andato incrementandosi un diverso orientamento giurisprudenziale che, negando rilevanza all’art. 2236 c.c. in sede di determinazione della colpa penale, sostiene che anche l’imperizia vada valutata in base agli stessi canoni applicabili alla negligenza e all’imprudenza, con conseguente responsabilità dell’agente anche per colpa lieve. Dalla colpa generica deve distinguersi quella specifica, la quale discende dalla violazione di regole precauzionali aventi fonte giuridica. Con riferimento al concetto di “leggi’’, in particolare, si discute in dottrina se in esso possano essere ricomprese anche le leggi penali genericamente intese. Considerato il fatto che la colpa consiste nella violazione di una norma avente una specifica finalità cautelare, ovvero diretta a prevenire, attraverso l’imposizione di specifiche precauzioni, la verificazione di eventi dannosi nell’esercizio di determinate attività, deve ritenersi che nel significato di “leggi’’ di cui all’art. 43 c.p. non possano certamente rientrarvi le norme penali incriminatrici, le quali assolvono ad una funzione differente rispetto a quella cautelare. Dopo le leggi, la norma enumera i regolamenti, gli ordini e le discipline: sono “regolamenti’’, in particolare, quelle fonti normative, di carattere secondario, contenenti norme a carattere generale predisposte dall’autorità pubblica per regolare lo svolgimento di determinate attività; sono “ordini’’ e “discipline”, invece, quelli che contengono norme indirizzate ad una cerchia specifica di destinatari, i quali possono essere emanati sia da autorità pubbliche che da autorità private. Per affermare la sussistenza di una responsabilità colposa, tuttavia, al fine di evitare il rischio di una responsabilità per il mero versati in re illicita, non è sufficiente verificare l’inosservanza della regola di condotta, occorrendo altresì accertare il requisito c.d. della causalità della colpa, il quale esprime la necessità che anche l’evento, oltre alla condotta, sia addebitabile alla colpa dell’agente. Come previsto dall’art. 43 c.p., infatti, l’evento che costituisce il reato deve essere la conseguenza della violazione posta in essere dall’agente e quindi della colpa di questo. Nella colpa generica, al fine di procedere all’accertamento di tale requisito si fa riferimento al criterio della prevedibilità ed evitabilità del fatto: nel caso in cui l’evento non fosse prevedibile dall’agente nel momento stesso in cui pone in essere la condotta, o comunque evitabile attraverso l’adempimento dell’obbligo di diligenza, è infatti chiaro come esso non possa ritenersi imputabile alla colpa di questo. Il giudizio di prevedibilità dell’evento deve essere effettuato ex ante, ossia riportandosi al momento della condotta, e prendendo in considerazione tutte le circostanze conosciute o che l’agente avrebbe potuto conoscere con l’utilizzo dell’ordinaria diligenza o comunque delle particolari capacità e competenze delle quali è dotato. Sulla base delle medesima esigenza, nella colpa c.d. specifica la responsabilità dell’agente non si estende a tutti gli eventi che siano materialmente derivati dalla propria condotta, ma solo a quelli che la norma mirava a prevenire; occorre, dunque, che si sia verificato uno di quegli eventi alla cui prevenzione la norma violata era destinata. Solo questa ipotesi, infatti, l’evento costituente il reato può ritenersi prevedibile dall’agente e nello stesso tempo da questo evitabile attraverso l’adempimento dell’obbligo violato, e dunque ad esso imputabile a titolo di colpa. Diversamente, infatti, l’agente verrebbe punito per la mera infrazione, ovvero sanzionato per il mero versati in re illicita, con la previsione di una sorta di responsabilità oggettiva. Il rispetto della norma cautelare scritta, in ogni caso, può non essere sufficiente per escludere la responsabilità colposa in capo all’agente; l’osservanza di tale norma, infatti, può non esaurire i doveri di diligenza e prudenza previsti in capo al soggetto quando è prevedibile che, nonostante l’osservanza della disposizione, possa comunque scaturire l’evento costituente il reato. Tanto premesso, ci si chiede se nel dovere di diligenza imposto all’agente possano anche essere ricondotti obblighi di natura cautelare relativi alla condotta di terze persone: in proposito, va operata la distinzione tra norme cautelari scritte e norme derivanti dagli usi sociali. Nel primo caso, in particolare, occorrerà accertare in via interpretativa se nello scopo perseguito dalla disposizione scritta rientri anche l’impedimento di eventi cagionati dall’azione di terze persone. Al contrario, con riferimento alla violazione di regole generiche di diligenza si ritiene operante il c.d. principio di affidamento, in base al quale ciascun consociato può confidare nel comportamento diligente dell’altro. Il principio dell’affidamento vale a maggior ragione nel caso in cui l’azione del terzo abbia natura dolosa: qui, infatti, la condotta è frutto di una libera scelta del soggetto che ne è l’autore. Il rispetto di tale principio, infatti, è imposto dall’esigenza di circoscrivere l’ambito del dovere obiettivo di diligenza nell’ambito di una responsabilità penale avente carattere personale. In pratica, presupponendo in capo a ciascuno individuo capace di intendere e volere l’attitudine ad un’autodeterminazione responsabile, ne deriva che ognuno deve evitare soltanto i pericoli scaturenti dalla propria condotta, mentre non sussiste l’obbligo di impedire che si realizzino comportamenti pericolosi di terze persone, le quali devono altrettanto essere capaci di scelte responsabili. Il principio dell’affidamento subisce tuttavia alcune eccezioni, anche in relazione ai comportamenti dolosi. La possibilità di fare affidamento nel comportamento diligente di un terzo, infatti, viene meno nei casi in cui l’obbligo di diligenza si innesta su di una posizione di garanzia: si pensi al caso in cui un soggetto rivesta una posizione di garanzia avente come oggetto la tutela di un bene giuridico rispetto alle aggressioni dolose di terzi, ovvero al caso in cui la posizione di garanzia abbia ad oggetto il controllo di fonti di pericolo di cui un terzo possa far uso al fine di commettere un illecito. Oltre che tra colpa generica e colpa specifica, si suole distinguere tra colpa cosciente e colpa incosciente. Come previsto espressamente dall’art. 43 c.p., infatti, è possibile che il soggetto abbia concretamente previsto il verificarsi dell’evento costituente il reato e, ciò nonostante, il fatto rimanga colposo. In proposito occorre guardare alla volontà dell’agente rispetto all’evento previsto; se cioè il rapporto tra volontà ed evento si pone in termini di contraddizione, nel senso che il soggetto non vuole la verificazione dello stesso, si avrà pur sempre colpa. Parte della dottrina, inoltre, suole distinguere tra colpa propria e colpa impropria: si definiscono colpa “impropria’’, in particolare, tutti quei casi in cui l’evento, sebbene sia voluto dall’agente, è ad esso attribuito a titolo di colpa. Si fanno rientrare in tale categoria le ipotesi di cui all’art. 55 c.p., eccesso colposo nelle cause di giustificazione, all’art. 59, ultimo comma, c.p., erronea supposizione dell’esistenza di cause di giustificazione, all’art. 47 c.p., errore di fatto determinato da colpa. Tale opinione è tuttavia difficilmente condivisibile, in quanto anche nei casi indicati l’agente non vuole il fatto di reato: nonostante la volizione in senso psicologico dell’evento, infatti, il dolo non è configurabile perché manca la coscienza e volontà dell’intero fatto tipico, stante l’erronea rappresentazione di elementi non corrispondenti alla realtà. Una particolare forma di colpa è quella c.d. professionale, ossia quella nella quale incorre il professionista nell’esercizio della propria attività professionale. Si è discusso per molto tempo se il comportamento del professionista nell’esercizio della sua professione debba essere valutato secondo le regole generali, oppure se anche in sede penale possa trovare applicazione l’art. 2236 c.c., ossia la limitazione di responsabilità alle sole ipotesi di dolo o colpa grave. Si è già detto che in passato la giurisprudenza, sul presupposto che le attività professionali richiedono la soluzione di problemi di notevole difficoltà tecnica, ritenne tale norma applicabile anche in ambito penale; sulla base di tale orientamento, dunque, il professionista poteva essere ritenuto penalmente responsabile solo nei casi di dolo o colpa grave. Tale orientamento è ad oggi superato: secondo la giurisprudenza dominante, infatti, la norma di cui all’art. 2236 c.c., secondo cui il prestatore d’opera è esonerato dall’obbligo del risarcimento del danno quando la prestazione implichi la soluzioni di problemi tecnici di speciale difficoltà, salvo che il fatto sia stato commesso con dolo o colpa grave, è diretta unicamente a disciplinare l’obbligo del risarcimento nel rapporto contrattuale, nonché in caso di responsabilità aquilana, ma in nessun caso può essere estesa all’ordinamento penale al fine di determinare un’ipotesi di non punibilità per fatti commessi con colpa lieve; le norme penali, infatti, non operano alcuna distinzione quantificatoria, ossia non distinguono tra colpa grave e colpa lieve. La Suprema Corte ha precisato, d’altra parte, che l’ordinamento penale distingue tra i vari gradi di colpa soltanto ai fini della determinazione della misura della pena e l’art. 43 c.p. non ammette restrizioni nell’accertamento dell’elemento psicologico, sicché la valutazione giudiziaria della colpa professionale, a differenza di quanto avviene nel giudizio civile in tema di risarcimento del danno, non è limitata all’ipotesi della colpa grave.


Avv. Riccardo Cuccatto