I selfie: prova schiacciante per vincere la causa

In Italia, dalle statistiche dell’anno 2020, risulta che ben 3,7 milioni di persone lavorano senza essere messi in regola dal punto di vista contrattuale, fiscale o contributiva. Secondo l’Istat il lavoro irregolare vale circa 79 miliardi della cosiddetta economia sommersa, con una incidenza sul prodotto interno lordo pari al 4,5%. Come ben si sa, è riconosciuta una tutela in ambito giurisdizionale anche a colui che lavora in nero, ovvero chi lavora senza che ci sia un contratto per iscritto, conosciuto dall’Agenzia delle Entrate. La legge, infatti, consente al lavoratore in nero una doppia possibilità di tutela, egli può sia rivolgendosi al giudice, sia ad organismi di conciliazione, con modalità gratuite o presso l’Ufficio territoriale del Lavoro oppure presso un sindacato. Se si opta per la via del tribunale, l’iter processuale da seguire è quello di una causa per accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro, che pur essendo irregolare di fatto c’è. In una causa così iniziata fondamentale è l’onere della prova che – in questa circostanza - grava sul lavoratore. Egli deve, infatti, fornire le prove del lavoro svolto. Il Codice di Procedura civile, prevede le cosiddette “prove tipiche”, vale a dire le prove che sono ammissibili e producibili innanzi al giudice. Pertanto, in mancanza di prove scritte, sarà possibile avvalersi, o della prova testimoniale, ovvero una prova orale (ad esempio di un fornitore, di un cliente o comunque di chi abbia avuto rapporti di qualsiasi tipo con il datore e/o il suo personale) o della eventuale confessione del datore, anch’essa prova orale. Ma l’ordinamento giuridico italiano prevede anche la possibilità di avvalersi delle cosiddette “prove atipiche”, ovvero non citate espressamente nel codice, ma comunque legittime. Questo è stato il focus principale su cui il Tribunale di Ferrara con la sentenza n. 4 del 7 febbraio 2020, si è pronunciato. La vicenda vede protagonisti un pizzaiolo e la sua titolare: il pizzaiolo aveva fatto causa alla titolare chiedendo il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato che si era protratto per ben quattro anni. La titolare del locale sosteneva di aver regolarmente assunto a tempo determinato il pizzaiolo per poi chiamarlo soltanto nei momenti di bisogno, retribuendolo con i voucher. Ribadiva, poi, che l’orario serale di lavoro del pizzaiolo non fosse mai andato oltre le due ore, ovvero dalle 19.30 alle 21.30. Da qui la valutazione probatoria dei selfie con l’orologio alle spalle del lavoratore che riproducevano giorno e date esatte, oltre alle testimonianze 2 dell’aiuto cuoco e di alcuni amici che avevano visto il pizzaiolo lavorare. Decisiva, poi, anche l’ispezione della direzione territoriale del lavoro che lo avevano sorpreso alla sua postazione senza contratto. Il giudice non ha dubbi: tutte le prove tra cui anche quelle testimoniali e selfie compresi, giocano a favore del lavoratore. A nulla è valsa la difesa della titolare, la quale ha provato a sostenere che nessuna delle fotografie ritraeva il pizzaiolo al lavoro. Da qui si deduce come il giudice ha valutato i selfie portati in giudizio come una prova dei fatti vincolante. Testualmente, la sentenza dice “nella valutazione delle prove il giudice deve utilizzare il criterio del prudente apprezzamento”. In questo caso, l’uso della tecnologia ha giocato un ruolo fondamentale nell’arringa del pizzaiolo che ha potuto autoprodurre delle prove in giudizio, prove che sono state ritenute dai consulenti tecnici nominati dal tribunale assolutamente genuine, in quanto non mostravano un possibile ritocco, così come invece era sostenuto dalla titolare. Il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato ha determinato la condanna al pagamento dei contributi previdenziali,per un importo totale di oltre 40mila euro. Ricordiamo, infatti, che il datore di lavoro che non assume il dipendente non sta compiendo un reato a meno che questi non sia un clandestino irregolare, bensì un illecito amministrativo. Le sanzioni sono così commisurate: • per lavoro nero di non oltre 30 giorni: sanzione da un minimo 1.800 euro e fino a un massimo 10.800 euro; • per lavoro in nero di non oltre 60 giorni: sanzione da un minimo di 3.600 euro ad un massimo di 21.600 euro; • per lavoro in nero di oltre 60 giorni: da un minimo di 7.200 euro ad un massimo di 43.200. È prevista poi una maggiorazione delle sanzioni, laddove il datore di lavoro dovesse risultare “recidivo”. Mentre la posizione del lavoratore è differente: rischia di commettere un reato solo nella misura in cui, mentre lavora in nero, percepisce dei sussidi statali destinati a chi è disoccupato o a chi ha un Isee sotto la soglia del reddito effettivamente percepito (seppur non dichiarato) con la retribuzione in nero. È il caso, ad esempio, di che riceve il reddito di cittadinanza o altri benefici socioassistenziali. In questo caso, scattano tre conseguenze sanzionatorie: - un’incriminazione penale (si va dal reato di falso in atto pubblico a quello di truffa ai danni dello Stato o di indebita percezione di benefici); - l’interruzione dell’erogazione beneficio; - l’ordine di restituzione delle somme percepite sino a quel momento. 


Dott.ssa Federica Macchione