La pericolosità sociale
Ai fini dell'applicazione di una misura di sicurezza, oltre alla commissione di un reato, è necessario
accertare la pericolosità sociale del suo autore: la legge, in pratica, considera l’illecito quale sintomo
della pericolosità del soggetto, la quale deve però essere accertata in concreto.
Le misure di sicurezza assurgono a mezzi di prevenzione individuale della delinquenza e
costituiscono, insieme alle pene, espressione del sistema c.d. del “doppio binario’’, concepito dal
codice penale Rocco.
L’intento perseguito dal legislatore dell’epoca era quello di riformare il sistema penale in
conformità alle tendenze politico/criminali allora vigenti, favorevoli al rafforzamento della
protezione sociale mediante l’introduzione, in aggiunta alle pene tradizionali, di nuove misure
sanzionatorie destinate a neutralizzare la pericolosità sociale di determinate categorie di delinquenti.
Come sottolineato da attenta dottrina, la necessità di un reato, quale presupposto indefettibile per
l’applicazione di una misura di sicurezza, è volta ad evitare eventuali arbitri dell’autorità giudiziaria
nell’accertamento giudiziale del requisito della pericolosità sociale, individuando così un dato
obiettivo sul quale il giudice deve fondare la valutazione di pericolosità.
Agli effetti della legge penale, afferma l’art. 203 c.p., è socialmente pericolosa la persona, anche se
non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati dall’art. 202 c.p. (ossia
un reato o un quasi reato), quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come
reati.
La definizione legislativa della pericolosità sociale come “probabilità’’ che si commettano nuovi
reati tende a sottolineare che, ai fini dell’applicazione di una misura di sicurezza, non è sufficiente
accertare la mera possibilità di ricadere nell’illecito.
Come previsto dall’art. 203, comma 2, c.p., in particolare, la qualità di persona socialmente
pericolosa si desume dalle circostanze indicate dall’art. 133 c.p., ossia dalla gravità del reato e dalla
capacità a delinquere del suo autore.
La pericolosità sociale è dunque il risultato di un giudizio prognostico effettuato dal giudice, il
quale, prendendo in specifica considerazione la gravità dell’illecito e la capacità a delinquere del
soggetto, ritiene probabile che quest’ultimo compia altri fatti costituenti reato.
Ad oggi, quindi, presupposto necessario per l’applicazione di una misura di sicurezza è
l’accertamento in concreto della pericolosità del reo, mentre deve ritenersi superata ogni forma di
presunzione legale di pericolosità.
Ciò a differenza di quanto previsto nella stesura originaria del codice penale, nella quale la necessità
del previo accertamento in concreto della pericolosità veniva meno in alcuni casi specificatamente
indicati: in pratica, in presenza di determinati presupposti relativi alla gravità del fatto commesso o
alle particolari condizioni psicologiche dell’agente, la legge attribuiva all’agente la qualità di
persona socialmente pericolosa con una presunzione non suscettibile di prova contraria.
Tale disciplina è stata ritenuta in contrasto con i valori costituzionali, ed in particolare con il
principio di legalità, e dunque abolita.
Accanto ai casi di pericolosità c.d. generica, si collocano alcune fattispecie di pericolosità sociale
c.d. “specifica’’: a tal proposito, si pensi al delinquente abituale, al delinquente professionale e
al delinquente per tendenza.
Tali forme di pericolosità, infatti, oltre agli aumenti di pena stabiliti per la recidiva ed i particolari
effetti indicati da altre disposizioni di legge, comportano l’applicazione di misure di sicurezza (art.
109, comma 1, c.p.).
Si suole distinguere tre diverse forme di abitualità nel delinquere: l’abitualità nel delitto presunta
dalla legge (art. 102 c.p.), l’abitualità nel delitto ritenuta dal giudice (art. 103 c.p.) e l’abitualità
nelle contravvenzioni (art. 104 c.p.).
A seguito dell’abrogazione di ogni forma di pericolosità sociale presunta, tuttavia, è stata messa in
dubbio la sopravvivenza della disciplina di cui all’art. 102 c.p., secondo il quale è dichiarato
delinquente abituale chi, dopo essere stato condannato alla reclusione per un periodo in misura
superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi
entro dieci anni, e non contestualmente, riporta un’altra condanna per un delitto, non colposo, della
stessa indole, e commesso entro i dieci anni successivi all’ultimo dei delitti precedenti.
Secondo l’orientamento prevalente, infatti, tale norma deve considerarsi tacitamente abrogata in
quanto, per effetto della riforma attuata con la l. 663 del 1986, non sono più ammesse nel nostro
ordinamento forme di pericolosità sociale presunta.
Tale impostazione è avvalorata dalla Corte costituzionale, la quale con riferimento a quanto previsto
dall’art. 222 c.p. - ai sensi del quale nel caso di proscioglimento per infermità psichica, ovvero per
intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo, è sempre
ordinato il ricovero dell’imputato in un ospedale psichiatrico giudiziario, per un tempo non inferiore
a due anni, salvo che si tratti di contravvenzioni o di delitti colposi o di altri delitti per i quali la
legge stabilisce la pena pecuniaria o la reclusione non superiore nel massimo a due anni - ha
chiarito che il giudice della cognizione e quello dell’esecuzione debbano necessariamente
provvedere ad accertare il persistere della pericolosità sociale derivante dall’infermità medesima al
tempo dell’applicazione della misura.
Di contrario avviso è invece un altro indirizzo, per il quale la riforma avrebbe avuto come effetto
solo quello di trasformare da assoluta a relativa la presunzione di pericolosità di cui all’art. 102 c.p.,
con la conseguenza che il giudice avrebbe comunque il dovere di verificare se nella realtà sussista
quella pericolosità presunta dalla legge.
Per l’opinione dominante, dunque, l’abitualità nel delitto è solo quella dichiarata dal giudice ex art.
103 c.p., in base al quale la dichiarazione di abitualità nel delitto è pronunciata contro chi, dopo
essere stato condannato per due delitti non colposi, riporta un’altra condanna per delitto non
colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati
commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate dall’art.
133 c.p., ritiene che il colpevole sia dedito al delitto.
In tema di dichiarazione di abitualità del reato, dunque, costituiscono elementi decisivi
l’omogeneità della natura dei reati commessi e la reiterazione della condotta commessa in tempi
ravvicinati.
Con particolare riferimento alla dichiarazione di abitualità ritenuta dal giudice, osserva la
giurisprudenza maggioritaria, qualora le condanne definitive riportate dall’imputato siano già
sussistenti nel numero prescritto e per i reati previsti, qualsiasi comportamento o circostanza che si
aggiunga alle suddette condanne e riveli una precisa tendenza a delinquere può essere assunto come
elemento sintomatico della qualificata pericolosità sociale del soggetto, tale da giustificare la
dichiarazione di abitualità nel delitto.
L’abitualità nelle contravvenzioni è invece disciplinata dall’art. 104 c.p., secondo il quale chi, dopo
essere stato condannato alla pena dell’arresto per tre contravvenzioni della stessa indole, riporta
condanna per un’altra contravvenzione, anche della stessa indole, è dichiarato contravventore
abituale, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono
stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate
nell’art. 133 c.p., ritiene che il colpevole sia dedito al reato.
Detto questo, può quindi definirsi delinquente abituale colui il quale ha acquisito una personalità
incline alla commissione di reati e sia come tale socialmente pericoloso.
Come previsto dall’art. 105 c.p., è invece delinquente professionale chi, trovandosi nelle condizioni
richieste per la dichiarazione di abitualità, riporta condanna per un altro reato, qualora, avuto
riguardo alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole e alle altre circostanze
indicate nell’art. 133 c.p., debba ritenersi che egli viva abitualmente, anche in parte soltanto, dei
proventi del reato.
Il delinquente professionale è dunque un tipo particolare di delinquente abituale, il quale vive,
anche in parte, con i profitti derivanti dai reati commessi.
Ai fini della dichiarazione di professionalità nel reato, tuttavia, non è necessario che il reo sia stato
dichiarato delinquente abituale, essendo sufficiente, come previsto dalla norma, che ricorrano i
presupposti dell’abitualità.
La figura del delinquente di tendenza, infine, è prevista dall’art. 108 c.p., per il quale è dichiarato
delinquente per tendenza chi, sebbene non recidivo o delinquente abituale o professionale,
commetta un delitto non colposo, contro la vita o l’incolumità individuale, che per sé e unitamente
alle circostanze indicate dall’art. 133 c.p. riveli una speciale inclinazione al delitto, la quale trovi la
sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole.
La disposizione di questo articolo non si applica se la inclinazione al delitto è originata
dall’infermità preveduta dagli articoli 88 e 89 c.p. (art. 108, comma 2, c.p.).
Secondo la previsione legislativa, dunque, può essere qualificato delinquente per tendenza colui il
quale, capace di intendere e volere, commetta un delitto di sangue che riveli l’inclinazione a
commettere altri reati, derivante da un’indole particolarmente malvagia.
La fattispecie in parola costituisce sicuramente la forma più discussa di pericolosità sociale
“specifica” prevista dal legislatore.
Secondo parte della dottrina, in particolare, vista la genericità dei concetti di “inclinazione al
delitto’’ e di “indole particolarmente malvagia’’, e dunque la difficoltà nel pervenire ad una
definizione dei medesimi nel rispetto dei principi di legalità e tassatività della fattispecie penale, la
figura del delinquente per tendenza non potrebbe trovare alcun riscontro certo ed obiettivo nella
realtà naturalistica, dovendo di conseguenza essere abbandonata.
Come previsto dall’art. 109, comma 2, c.p., sia la dichiarazione di abitualità che quella di
professionalità nel reato possono essere pronunciate in ogni tempo, anche dopo l’esecuzione delle
pena; ma se sono pronunciate dopo la sentenza di condanna, non si tiene conto della successiva
condotta del colpevole e rimane ferma la pena inflitta.
Ai sensi dell’art. 679 c.p.p., quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata, fuori dai
casi di applicazione provvisoria nel corso del processo ai sensi dell’art. 312 c.p.p., ordinata con
sentenza o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del
pubblico ministero o d’ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i
provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualità o professionalità
nel reato.
Tale magistrato provvede altresì, su richiesta del pubblico ministero, dell’interessato, del suo
difensore o d’ufficio, su ogni questione relativa, nonché sulla revoca della dichiarazione di tendenza
a delinquere, la quale, ai sensi dell’art. 109, comma 3, c.p., non può che essere ordinata con la
sentenza di condanna.
Una volta che il giudice abbia ordinato, con sentenza di condanna o di proscioglimento, e previo
accertamento della pericolosità sociale del reo, l’applicazione di una misura di sicurezza, spetta
dunque al magistrato di sorveglianza curarne l’esecuzione, provvedendo, anche d’ufficio, ad un
riesame della pericolosità.
Le disposizioni concernenti le misure di sicurezza, infatti, impongono sempre di accertare la
persistenza della pericolosità sociale del soggetto riferita, oltre che al momento dell’applicazione
della misura, anche a quello della sua esecuzione.
Il magistrato di sorveglianza decide con ordinanza applicando, modificando, sostituendo o
revocando la misura di sicurezza.
Come previsto dall’art. 680 c.p.p., contro i provvedimenti del magistrato di sorveglianza
concernenti le misure di sicurezza e la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di
tendenza a delinquere, possono proporre appello al tribunale di sorveglianza il pubblico ministero,
l’interessato ed il difensore.
In ogni caso, la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato e quella di tendenza a
delinquere si estinguono per effetto della riabilitazione (art. 109, comma 4, c.p.).
Avv. Riccardo Cuccatto