L’affiliazione del partecipe ad un’associazione di stampo mafioso: la parola alle Sezioni Unite
È stata rimessa al giudizio delle Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 5071/2021 della I Sezione penale della Corte di Cassazione, la seguente questione:” se la mera affiliazione da una associazione a delinquere di stampo mafioso cd. storica, nella specie ‘Ndrangheta’, effettuata secondo il rituale previsto dalla associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto”.
La Cassazione era stata chiamata a pronunciarsi su un ricorso, presentato dalla difesa di due indagati, avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria che aveva confermato il provvedimento del Gip che disponeva la custodia cautelare in carcere nei confronti dei due soggetti per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. commi primo, secondo, terzo, quarto e quinto. Secondo il Tribunale della libertà, il provvedimento cautelare, disposto nei confronti degli indagati, era meritevole di conferma poiché sussistevano sia i gravi indizi di colpevolezza che le esigenze cautelari, sulla scorta degli elementi indiziari raccolti in sede di indagini. Nel ripercorrere l’iter cautelare oggetto del ricorso, la Suprema Corte evidenziava che ai due imputati era stata contestata la partecipazione ad un sodalizio che costituiva un’articolazione territoriale di una cosca operante in tutto l’Aspromonte sulla base del rito di affiliazione, avvenuto nell’aprile 2018 e svoltosi alla presenza del padre dei due indagati ricorrenti. I gravi indizi di colpevolezza venivano fondati dagli esiti delle attività di intercettazione, che ricostruivano il rituale di affiliazione, il secondo presupposto per l’applicazione di una misura cautelare, ossia le esigenze cautelari, veniva giudicato sussistente dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria in conseguenza dell’elevato disvalore delle condotte illecite che venivano contestate agli indagati e della loro riconducibilità ad un sodalizio criminale che era storicamente radicato in quell’area della Calabria. Fatto salvo, peraltro, quanto prescrive l’art. 275 comma 3 c.p.p. che individua nella custodia cautelare in carcere la misura adeguata, quando si procede per una serie di delitti specificamente individuati, tra cui vi rientra il 416 bis c.p., e sussistono i gravi indizi di colpevolezza in capo ai soggetti destinatari del provvedimento.
La difesa nell’impugnare l’ordinanza del Tribunale della libertà, che confermava la misura custodiale, deduceva violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento agli artt. 273 c.p.p. e 416 bis c.p., evidenziando una discrasia tra il ruolo attribuito ai ricorrenti all’interno del sodalizio e le risultanze probatorie, in quanto non vi sarebbe alcun elemento da cui potesse risultare un contributo causale fornito all’associazione e degli indici fattuali da cui si potesse affermare l’esistenza di un collegamento consortile tra i ricorrenti e la cellula ‘ndranghetista alla quale sarebbero affiliati i due affiliati. In altri termini, i legali dei due indagati contestavano l’ordinanza in questione poiché si fondava esclusivamente sulla mera affiliazione al sodalizio, ma non conteneva alcun elemento concreto dal quale poter dedurre un contributo causalmente rilevante all’attività associativa criminosa, che arricchisse il quadro indiziario acquisito necessario per la configurazione del delitto ex art. 416 bis c.p. Per tali motivi chiedeva l’annullamento del provvedimento cautelare.
Stante un conflitto giurisprudenziale, che perdura da qualche anno, circa la configurabilità del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. a seguito della mera affiliazione del partecipe, ovvero se per ritenersi integrato dovessero sussistere ulteriori indici fattuali e degli elementi rivelatori, dai quali dedurre la dimostrazione della costante permanenza al sodalizio e la messa a disposizione per la realizzazione dei delitti scopo dell’associazione.
Più dettagliatamente, i giudici nel ripercorrere la vicenda cautelare in esame, fanno un’attenta analisi del delitto associativo. L’introduzione nell’ordinamento dell’art. 416 bis c.p. ha certamente consentito di compiere un importante passo in avanti nella lotta alla criminalità organizzata e alle mafie cd. “storiche”, le quali si sono radicate nei territori d’origine, assumendo il controllo del territorio e dei mercati illeciti (si pensi a stupefacenti, estorsioni, prostituzione e smaltimento dei rifiuti), a ciò si aggiunge una crescente influenza nell’aggiudicazione degli appalti pubblici e nell’affidamento dei lavori e dei servizi della P.A.
Inoltre, nell’ultimo trentennio le mafie hanno avuto modo di espandersi in modo capillare su tutto il territorio nazionale e internazionale, in numerosi settori dell’economia finanziaria al fine di riciclare i proventi delle numerose attività delittuose.
La fattispecie delineata dall’art. 416 bis c.p. è quella di un reato di pericolo, per cui lo scopo preminente dell’associazione di tipo mafioso è quella di ottenere «in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri […]», attraverso le modalità indicate dal terzo comma, ovvero la forza di intimidazione del vincolo associativo, la condizione di assoggettamento e di omertà. Si tratterebbe quindi di una previsione normativa volta a delineare i contorni di un’attività associativa orientata al controllo illecito e monopolistico delle attività produttive nelle aree in cui è storicamente presente. Il reato associativo di cui all’art. 416 bis c.p. è peraltro definito “a struttura mista”, nel senso che oltre a ricomprendere l’organizzazione plurisoggettiva e un programma criminoso, si caratterizza per la presenza di un terzo elemento, il metodo mafioso. La modalità di esteriorizzazione del metodo mafioso avviene attraverso la forza di intimidazione, che non richiede necessariamente il compimento di atti violenti o minacciosi, ma può essere manifestata in qualunque modo, poiché anche una richiesta può rivelare il metodo mafioso, tenuto conto delle circostanze oggettive e soggettive della fattispecie concreta. I giudici di legittimità evidenziano come la caratterizzazione territoriale e strutturale del sodalizio mafioso, allontana la fattispecie ex art. 416 bis c.p. dal principio di legalità formale, che regola l’intero sistema penale ai sensi dell’art. 25 secondo comma Cost., piuttosto introduce un modello di tipicità “atipica” o “incompiuta”, in cui si sanziona il partecipe in quanto tale per via della sua mera adesione alle finalità perseguite dall’associazione. In altri termini, si tratterebbe di un reato di status, identificabile con valutazioni riferite alla soggettività eversiva del suo autore all’ordinamento, anziché con le prove per ciò che ha fatto in concreto. Da tali premesse sorgono le perplessità giurisprudenziali in ordine all’integrazione del delitto di cui all’art. 416 bis c.p., atteso che la norma punisca la condotta di «chiunque fa parte di un’associazione di stampo mafioso formata da tre o più persone», senza però chiarire in che modo debba concretizzarsi la partecipazione.
Evidenziate le caratteristiche e le criticità che la fattispecie pone, i giudici della I Sezione ricordano che se la partecipazione associativa debba essere integrata da elementi ulteriori rispetto alla mera affiliazione, occorrerà comprendere come si possa pervenire all’individuazione degli indici sintomatici, rivelatori di una partecipazione attiva alle attività consortili, posto che il nostro ordinamento è modellato sulla base del principio di tipicità formale dettato dal testo costituzionale e da quello di tassatività, che pongono un limite a fenomeni di creazionismo giurisprudenziale. Pertanto il valore della giurisprudenza di legittimità, nell’ambito dell’ordinamento interno, non è contrassegnato dalla vincolatività del precedente, pur riconoscendo la persuasività, la profondità e l’accuratezza dei suoi argomenti, ma che non hanno carattere impositivo.
Vero è che le Sezioni Unite stesse, in alcune pronunce in materia di concorso esterno in associazione mafiosa, come nella sentenza Mannino n. 33478/2005, avevano provato a tratteggiare la distinzione tra partecipe e concorrente esterno, definendo l’associato in senso dinamico e funzionale, ovvero come colui che sia stabilmente e organicamente inserito nella struttura organizzativa e si mette a disposizione per il conseguimento degli obiettivi dell’associazione. Tuttavia, il rituale di affiliazione alla consorteria viene definito come un indicatore dotato di elevata sintomaticità della partecipazione associativa, sebbene sul piano probatorio assumano rilevanza tutti gli indicatori fattuali, che siano gravi e precisi e dai quali possa desumersi la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo dell’associazione.
In questo senso la Sezione semplice introduce in modo dettagliato il contrasto non risolto esistente all’interno della giurisprudenza di legittimità, che costituisce l’oggetto dell’ordinanza di rimessione. Secondo un primo orientamento, l’affiliazione ad un’associazione mafiosa consuma il delitto ex art. 416 bis c.p., in quanto l’adesione del soggetto alla consorteria è di per sé idoneo ad accrescere le potenzialità criminali ed intimidatorie del sodalizio. Non sarebbe peraltro necessario il compimento di specifici e ulteriori atti esecutivi della condotta illecita, poiché la fattispecie in esame è un reato di pericolo presunto che offende l’ordine pubblico e quindi è sufficiente, per la sua configurazione, la dichiarata adesione al sodalizio. Si muove nello stesso senso l’arresto giurisprudenziale, secondo cui ai fini della condotta di integrazione del 416 bis c.p. è sufficiente che il membro del sodalizio assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del gruppo criminale.
Diversamente, altro indirizzo ritiene che l’affiliazione al clan non sia già di per se sola a fondare un giudizio di responsabilità nei confronti dell’imputato, ma richiede la prova del compimento di specifici ed ulteriori atti esecutivi dei reati fine. Il giudizio di responsabilità per il delitto di partecipazione all’associazione mafiosa non potrebbe che avvenire attraverso l’acquisizione di elementi concreti e specifici, che siano rivelatori del ruolo attivo del partecipe nel sodalizio, in quanto ciò che rileva è la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo della consorteria, secondo una visione unitaria degli elementi rivelatori di un ruolo dinamico all’interno della stessa.
Sulla base del rilevato contrasto giurisprudenziale, la I Sezione non può che rimettere al vaglio delle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 primo comma c.p.p., i ricorsi proposti dai due indagati avverso il provvedimento che confermava la custodia cautelare in carcere, al fine di dirimere il contrasto e se valutare la mera affiliazione ad un'associazione di tipo mafioso, effettuata secondo il rituale previsto dall'associazione stessa, costituisca già di per sè fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità, in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto del tenore letterale dell'art. 416 bis c.p. e della struttura del reato previsto dalla norma.
La pronuncia che attende la Cassazione nel suo massimo consesso avrà un’ampia portata, infatti non può che incidere, oltre che sulla vicenda cautelare in esame, anche in sede di affermazione della responsabilità penale, poiché impatta su una questione estremamente complessa e di notevole rilevanza nella lotta al crimine organizzato, ai suoi sviluppi e alle sue modalità di manifestazione.
Dott. Alessandro Schirò