L'art. 323 ter c.p. e la sua applicabilità al reato di traffico di influenze illecite e al fatto commesso dall'agente provocatore

L’analisi della causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., introdotta con legge del 9/1/19 n. 3, presuppone una concisa disamina di portata generale sulle c.d. cause di non punibilità in senso lato. Trattasi di circostanze in cui l’orientamento sceglie di “giustificare” la condotta del reo, ovvero di “esimere” quest’ultimo dalla comminazione della pena a fronte di un giudizio di bilanciamento, di opportunità e di organicità sistematica. All’interno di ciò che comunemente va sotto il nome di cause di non punibilità, si suole distinguere tra le c.d. scriminanti, o anche cause di giustificazione in senso stretto e le esimenti, quali cause di non punibilità propriamente dette.

Le ragioni sottese alle stesse, si è detto, possono essere le più disparate poiché, vuoi per motivi di coerenza sistematica con altri settori dell’ordinamento, vuoi per la presa in atto dell’impossibilità di pretendere determinati comportamenti secundum iure a fronte di talune situazioni fattuali, vuoi, infine, per la preferenza accordata alla tutela di interessi preminente in un’ottica di bilanciamento con altri, in ogni caso, si perviene al comune risultato della non punibilità del fatto di reato. Da qui le disposizioni di cui agli articoli 50 e seguenti quali scriminanti, oltreché numerose cause di non punibilità in senso lato (c.d. esimenti) disciplinate principalmente nella parte speciale del codice penale, con riferimento a determinati reati, ovvero in talune fattispecie di parte generale. Emblematica in tal senso la disposizione di cui al comma secondo dell’articolo 56 c.p., norma dedicata al reato tentato[1]. Nello specifico, la c.d. desistenza volontaria costituisce una fattispecie premiale per coloro che, pur avendo posto in essere atti idonei e diretti univocamente alla realizzazione di un evento di reato, ciò nonostante si pentono e abbandonano l’azione criminosa prima che quest’ultima si consumi. Requisito imprescindibile per l’operatività della causa di non punibilità è la “volontarietà” della desistenza. Si badi, non è richiesta la spontaneità, bensì la mera assenza di un costringimento, a prescindere dal fatto che l’impulso avvenga sua sponte ovvero dall’esterno.

Alla base di una disposizione siffatta, evidentemente, vi è la precipua intenzione del legislatore di contenere quanto più possibile l’offesa criminale mediante la predisposizione di incentivi e ricompense a quanti tornano sui propri passi impedendo e prevenendo l’offesa concreta. Da qui l’immediata relazione con il principio dell’offensività e, in particolare modo, con la sua accezione in termini di offensività in concreto, del quale il comma terzo dell’art. 56 c.p. altro non è che diretta estrinsecazione e attuazione.

In sintesi, al di là della natura premiale e incentivante, sul piano concreto, la desistenza volontaria costituisce applicazione pratica del reato costruito sulla proporzionalità dell’offesa: ove quest’ultima, di fatto, è rimasta circoscritta ad un piano potenziale e astratto, senza assumere connotati oggettivi, è giusto, equo e, appunto, proporzionale, non intervenire con la sanzione penale, par exellence misura afflittiva. Ne consegue la relativa esimente di cui alla norma in parola, ulteriormente giustificata dall’intento premiale.

Di diverso tenore è, invece, la disposizione di cui al comma successivo, id est il c.d. “ravvedimento operoso”. Trattasi di una mera circostanza attenuante che comporta un abbattimento di pena ulteriore e aggiuntivo a quello previsto per la fattispecie tentata. La differenza di trattamento tra il terzo e il quarto comma si giustifica per il fatto che nella prima evenienza non ha trovato compimento non soltanto l’evento, ma anche l’azione delittuosa; nella seconda, invece, la condotta si è consumata, per cui, oggettivamente, in nulla differisce dalla fattispecie tentata e l’abbattimento di pena si fonda non tanto sul principio di offensività concreta, quanto più su quello della personalità della pena. Nel senso che, così operando, l’agente ha dimostrato una minore propensione all’illecito, oltreché si è operosamente attivato al fine di impedirne l’ulteriore propagazione, talché merita indubbiamente uno sconto in termini di sanzione a fonte di chi, invece, non ha portato a consumazione un delitto per fatti meramente estranei alla propria sfera di controllo.

Da questa premessa, è allora possibile inquadrare a pieno titolo come una forma di desistenza volontaria la causa di non punibilità di cui all’art. 323 ter c.p., di recentissima introduzione. Tale conclusione necessita di precisazione poiché, prima facie, pare sussistere un’incompatibilità logica alla sovrapposizione tra una esimente che presuppone la commissione di un fatto di reato, quale è l’art. 323 ter c.p. e la desistenza volontaria, fondata invece, come anticipato, sul mancato compimento dell’azione criminosa. Incompatibilità potenziale che diventa attuale nel momento in cui la previsione di cui all’art. 323 ter c.p. opera nell’ipotesi in cui il reato non si sia arrestato allo stadio del tentativo, bensì abbia trovato consumazione, evenienza possibile oltreché espressamente contemplata dalla norma, all’inciso “entro quattro mesi dalla commissione del fatto”.

La corretta risoluzione della questione passa attraverso l’attenta analisi della fattispecie normativa[2]. Da una prima lettura, già si evince un ambito applicativo ristretto della norma, circoscritto alle sole ipotesi di reato tassativamente contemplate e, pertanto, insuscettibili di interpretazione estensiva. Trattasi di delitti contro la pubblica amministrazione, a cui il codice dedica l’intero titolo II del libro II e, più in particolare, di taluni reati contenuti ai capi I e II sotto la rubrica “dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione”, ovvero dei privati.

L’esatta individuazione dello spazio operativo dell’art. 323 ter c.p. permette di evidenziare un tratto comune ai reati in questione; il che, a sua volta permette di comprendere la ratio ispiratrice della stessa causa di non punibilità. Difatti, tanto i delitti di corruzione e di induzione indebita, quanto quelli di turbata libertà degli incanti e del procedimento di scelta del contraente, nonché di astensione degli incanti, sono reati di pericolo, ergo reati costruiti su una tecnica di anticipazione della tutela che incriminano condotte prodromiche alla realizzazione dell’evento. Suddetta tecnica legislativa, al labile confine con il principio di offensività, si giustifica alla luce della preminenza degli interessi sottesi alle fattispecie criminose, vale a dire, per il caso di specie, l’imparzialità, la correttezza e il buon andamento della PA, ossia valori imminenti e imprescindibili che giustificano una compromissione parziale degli interessi contrapposti. Da qui la costruzione di fattispecie quali quella di cui all’art. 318 c.p. che, esemplificativamente, punisce non soltanto la condotta di ricezione, bensì anche quella di accettazione della promessa di denaro o di altra utilità per l’esercizio delle funzioni di pubblico ufficiale. È chiaro che, in tale evenienza, non è necessario attendere il verificarsi dell’evento corruttivo, lesivo dell’imparzialità e del buon andamento della PA, poiché, ai fini dell’integrazione di reato, è sufficiente la mera promessa, indipendentemente dalla sua concreta attuazione. Il tutto, fermo restando, ovviamente, l’imprescindibile rispetto del principio di offensività, i cui confini sono osservati ove si richieda, quantomeno, una concreta portata lesiva della condotta incriminata.

Ebbene, assodata la natura di pericolo dei reati contemplati dall’art. 316 ter c.p., ne consegue immediatamente l’astratta inapplicabilità ad essi della desistenza volontaria di cui al comma terzo dell’art. 56 c.p. Precisamente, se ancora non vi è un’unanime orientamento giurisprudenziale circa la compatibilità della fattispecie tentata ex art. 56 ai reati di pericolo, scontrandosi sul punto divergenti opinioni, pacifica dovrebbe in ogni caso essere l’ontologica incompatibilità con essi della desistenza volontaria, posto che quest’ultima non solo prescinde dall’evento, ma anche dalla condotta.

È chiaro, allora, che un’anticipazione di tutela che si spinge fino ad incriminare condotte propedeutiche alla commissione di un’azione lesiva non può in nuce conciliarsi con una disposizione circoscritta a fattispecie amputate anche della consumazione della condotta.

In sintesi, se il pericolo ben potrebbe coesistere con l’idoneità e l’univocità di direzione dell’azione propria del tentativo, non altrettanto può dirsi per la desisetnza, ergo l’abbandono volontario dell’azione criminosa prima ancora che essa raggiunga la soglia della completezza. Pena un’eccessiva e, in quanto tale, inammissibile compromissione del principio di offensività il quale, se già ridotto ai minimi termini dalla previsione di reati d pericolo, se ulteriormente svilito dalla repressione di una condotta non compiuta, non troverebbe più spazio operativo.

Stante dunque la preclusione ontologica di un’applicazione della desistenza volontaria ai reati di pericolo, dal suo operare ne rimarrebbero esclusi pressoché tutti i reati di cui al titolo II, libro II, il che, talvolta, potrebbe condurre a conseguenze inique, oltreché ad applicazioni sanzionatorie spersonalizzate poiché rigide. Da qui la previsione di una norma quale quella di cui all’articolo 323 ter c.p.

Nello specifico, entro i limiti imposti dal principio di offensività, la disposizione in parola consente una “velata” trasposizione della desistenza volontaria o, meglio, degli effetti di quest’ultima. In altri termini, cambiando i presupposti, ottenendo il medesimo risultato; il tutto in pian sintonia con il principio di offensività. Difatti, la ratio sottesa alla causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p. rimane sempre quella di incentivare la collaborazione giudiziaria e, quindi, consentire, da una parte, la prevenzione, dall’altra, l’ulteriore propagazione dell’illecito. È una fattispecie premiale per coloro i quali “volontariamente” impediscono la permanenza del reato e, dunque, eliminano le conseguenze dannose del fatto di reato ormai commesso. Il richiamo al c.d. ponte d’oro di cui all’art 56, terzo comma, c.p. è immediato: fattispecie premiale e, allo stesso tempo, finalizzata al massimo contenimento dell’offesa.

Il fondamento dell’art. 323 ter c.p., come anticipato, si rinviene comunque nel principio di offensività concreta: funzione della norma è quella di eliminare gli effetti dannosi, porre fine all’offesa e contenerla entro serrati limiti temporali, anche assicurando alla giustizia eventuali concorrenti.

Ulteriore profilo di assimilazione tra desistenza volontaria e causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p. è costituito dai requisiti di operatività, vale a dire la volontarietà del pentimento, il contenimento dell'offesa e, da ultimo, il ripristino della situazione di liceità. Il tutto, sempre, in un’ottica di bilanciamento fra interessi contrapposti, che giustifica la compressione della funzione afflittiva e deterrente della sanzione penale, a favore di quella riparatoria, rieducativa e compensativa.

Delineata la natura giuridica e circoscritto l’ambito applicativo della disposizione contenuta all’art. 323 ter c.p., la questione verte, dunque, sull’eventuale possibilità di estendere la portata operativa della stessa anche a fattispecie non contemplare dalla norma, ma, comunque, rientranti all’interno della categoria di reati contro la pubblica amministrazione di cui al titolo II del libro II. Più precisamente, il riferimento va alla fattispecie di cui all’art. 346 bis c.p. e alla sua compatibilità con la causa di non punibilità ex art. 323 ter c.p. La disposizione in parola è stata aggiunta dall’art. 1 della legge 6/11/2012, n. 190 e novellato dalla stessa legge di introduzione dell’art. 323 ter c.p. (la n.3 del 2019) la quale ultima, tra l’altro, ha sostituito il comma primo dell’art. 346 bis c.p., estendendo la clausola di riserva dell’incipit anche al reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 c.p. e aggiungendo la condotta di “vantamento” tra quelle oggetto di incriminazione.

Ictu oculi, già il fatto che il legislatore del 2019, nell’introdurre ex novo l’art. 323ter c.p., non abbia inserito il traffico di influenze illecite all’interno dell’elencazione ivi contenuta sullo spazio di operatività della causa di non punibilità e che sia comunque intervenuto a novellare l’art. 346bis c.p., potrebbe, già di per sé, essere un chiaro indizio per una conclusione nel senso che ubi lex voluti, dixit, ubi noluit, tacuit. Pertanto, già il dato sistematico conduce alla conclusione della non applicabilità. Non solo. A ciò si aggiunga il dato letterale, tanto dell’art. 323 ter c.p., quanto del 346bis c.p. Difatti, per quanto riguarda il primo, si è già detto dell’esclusione del traffico di influenze illecite tra l’elencazione dei reati per i quali la causa di non punibilità trova applicazione; anche sul versante dell’art. 346 bis c.p., tuttavia, non va sottaciuto la clausola di riserva di cui si compone l’incipit e che al suo interno contiene esclusivamente gli articoli 318, 319, 319 ter e 322bis c.p. A ben vedere, si legge “fuori dai casi di concorso nei reati di cui agli articoli 318, 319, 319 ter e nei reati di corruzione di cui all’art. 322bis”: la peculiarità della formulazione è dovuta esclusivamente al fatto che il traffico di influenze illecite è reato comune, mentre i reati di cui all’art. 318 e seguenti sono reati propri, che richiedono la particolare qualifica di pubblico ufficiale, ovvero di incaricato di pubblico servizio. Quel che rileva è che, nonostante la diversa formulazione della clausola di riserva, la fattispecie di cui all’art. 346bis c.p. rimane comunque alternativa e non cumulativa al reato di corruzione.

Sempre con riferimento agli elementi che ostano ad una applicabilità della causa di non punibilità all’art. 346bi c.p., il dato più saliente, al di là di quello letterale e sistematico, si ricava però dalla ratio ispiratrice della fattispecie penale, la quale, in parte, differisce dal fondamento dei reati per cui si applica l’art. 323ter c.p. In sintesi, ciò che l’art. 346bis c.p. mira a tutelare è sempre il buon andamento e l’imparzialità della PA ma, questa volta, nella particolare accezione di integrità e non solo di rettitudine: se la corruzione mina direttamente all’onesta del singolo funzionario pubblico e, per riflesso, all’imparzialità dell’intera amministrazione, il traffico di influenze illecite soltanto indirettamente tange l’operato della PA, poiché il disvalore è più propriamente ravvisabile nella millantata o effettiva mediazione onerosa con un soggetto appartenente alla PA. A ben vedere, il fatto che venga punito lo sfruttamento tanto di una reale relazione con la PA, quanto di una fittizia, evidenzia che l’interesse tutelato dalla norma è più che altro il pericolo o la concreta attuazione di una commerciabilità di conoscenze e favori con membri interni alla PA, ergo l’immagine della amministrazione pubblica. Pertanto, se pur, in termini generali, il reato di cui all’art. 346bis c.p. è ipotesi meno grave rispetto ai reati di corruzione e di induzione indebita essendo privo di uno specifico accordo illecito, esso non merita l’applicazione della causa sopravvenuta di non punibilità di cui all’art. 323ter c.p. data, tra le altre motivazioni, anche la diversa estensione del bene giuridico leso: se nel reato di corruzione o di indebita induzione la desistenza volontaria, successiva alla commissione del fatto di reato (e cronologicamente contenuta) è, di per sé, idonea ad impedire l’offensività dell’azione, oltreché evitarne l’ulteriore propagazione e ripristinare lo status quo ante, non altrettanto può dirsi con riferimento alla condotta di chi ha fatto traffico di influenze illecite, stante la natura intrinsecamente diffusa dell’offesa da esso arrecato. Da qui il venir meno della ragione giustificativa sottesa all’applicabilità della causa di non punibilità ex art. 323ter c.p., così come ampiamente descritta a tempo debito.

Da ultimo rimane da affrontare la questione circa l’eventuale applicabilità dell’art. 323ter c.p. alle ipotesi di concorso di persone e, in particolare, alla figura dell’agente provocatore.

Con ciò si intende il concorrente morale, che ha indotto l’esecutore materiale all’azione criminosa, vale a dire colui che ha dato impulso soggettivo allagare illecito, ingenerando in altro soggetto il proposito criminoso, al precipuo ed esclusivo fine di assicurare costui alla giustizia. Ebbene, è chiaro che in tal caso il problema assume una portata apparente, poiché nell’evenienza in cui l’agente provocatore abbia agito entro i limiti del tentativo, nel senso di scongiurare anche il mero pericolo del verificarsi dell’eventi, opererà la previsione generale della desistenza volontaria di cui all’art. 56, terzo comma, c.p.; diversamente, qualora il fatto di reato sia giunto a compimento, non potrà in ogni caso farsi applicazione della causa di cui all’art. 323ter c.p., poiché quest’ultima ha uno spazio operativo limitato al solo esecutore materiale, non estendibile al concorrente morale.

In sintesi, fermo restando l’applicazione dell’esimente di cui al terzo comma dell’art. 56 c.p., qualora il pericolo di offesa sia in nuce scongiurato dall’agente provocatore, nell’evenienza in cui l’azione criminosa posta in essere dall’autore materiale vada oltre, spingendosi fino alla completa commissione del fatto di reato di cui agli articoli 318, 319, 319ter, 319quater, 320, 321, 322bis, 353, 353bis e 354, ai fini dell’applicabilità dell’art. 323ter c.p., oggetto di indagine sarà la desistenza dell’autore materiale del fatto e non del concorrente morale. Sicchè o a desistere sia l’agente provocatore, e allora non vi sarà spazio per l’applicazione dell’esimente ex art 323ter c.p., o, altrimenti, non vi sarà neppure ragione d’essere di una potenziale operatività della norma in parola. Ad ulteriore avvallo dell’incompatibilità in nuce fra le due fattispecie opera ancora una volta la ratio sottesa alla previsione dell’art. 323ter c.p., vale a dire premiare colui che, stante la commissione del fatto di reato, abbia la potenzialità di pentirsene e ripristinare in toto lo status quo ante e così faccia.

Per completezza espositiva, si rammenta inoltre che, qualora vi siano gli estremi applicativi, l’agente provocatore potrà comunque andare esente da pena mediante applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 c.p., vale a dire l’adempimento di un dovere.


Dott.ssa Elena Anatrà 



[1] Ai sensi della predetta, "se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscono per sé un reato diverso”.

[2] Ai sensi dell’art. 323 ter c.p., “non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 353, 353bis e 354 se, prima di avere notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del reato e per individuare gli altri responsabili”; segue la circoscrizione dell’operatività della non punibilità ai soli casi in cui vi sia un concreto ripristino dello status quo ante diretto ovvero per equivalente, nonché l’indicazione di elementi utili e concreti per individuare il beneficiario effettivo.