Le condizioni obiettive di punibilità
La punibilità si identifica nella concreta possibilità di irrogare la sanzione prevista per la violazione
del precetto penale.
Secondo la concezione tradizionale del reato, la punibilità non costituisce un elemento necessario
per la sua esistenza.
Di recente, tuttavia, si è fatta strada in dottrina la teoria c.d. quadripartita, la quale, scomponendo il
reato in quattro diversi elementi, aggiunge alla tipicità, antigiuridicità e colpevolezza del fatto,
anche la punibilità del suo autore.
Sulla base di tale impostazione, dunque, la punibilità assurge a vero e proprio elemento costitutivo
del fatto illecito.
Per il sorgere della punibilità, oltre alla commissione di un reato, è necessaria l’assenza di cause di
non punibilità o di estinzione della punibilità, nonché la presenza di eventuali condizioni obiettive
di punibilità.
In alcuni casi, infatti, ai fini dell’applicazione della sanzione la legge richiede la sussistenza di
condizioni ulteriori rispetto alla realizzazione della condotta vietata, le quali sono indipendenti dalla
volontà del reo e alle quali la norma subordina la punibilità di questo.
Ai sensi dell’art. 44 c.p., in particolare, quando per la punibilità del reato la legge richiede il
verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato anche se l’evento da cui dipende il
verificarsi della condizione non è da lui voluto.
L’istituto delle condizioni obiettive di punibilità è sicuramente uno dei più controversi tra quelli
previsti dal nostro codice.
Le questioni problematiche concernono, essenzialmente, l’individuazione della funzione
dell’istituto, la posizione delle condizioni nella struttura del fatto di reato, il loro rapporto con
l’offesa tipica, la compatibilità con il principio di colpevolezza e la determinazione dei criteri per
l’individuazione delle stesse.
Come osservato da parte della dottrina, l’origine storica delle condizioni obiettive di punibilità deve
essere ricercata nella necessità di conciliare esigenze contrapposte: da un lato, infatti, ragioni di
convenienza pratica e di opportunità politico/criminale inducono a subordinare la punibilità di
alcuni tipi di comportamento al verificarsi di determinate circostanze; dall’altro, però, in ossequio al
principio di stretta legalità, tali valutazioni di convenienza ed opportunità non possono essere
affidate al potere discrezionale del giudice, bensì tipizzate dallo stesso legislatore.
Da questo punto di vista, dunque, l’introduzione legislativa delle condizioni obiettive di punibilità
svolge una duplice funzione di delimitazione o riduzione del penalmente rilevante e, nel contempo,
di garanzia connessa al rispetto del principio di legalità.
Di contrario avviso è invece altra dottrina, la quale esclude che di tali esigenze “garantiste” si sia
fatto portatore il legislatore fascista, il quale è notoriamente improntato a logiche repressive/
punitive, in un’ottica più interessata ad estendere la punibilità piuttosto che a restringerla.
Secondo tale opinione, dunque, l’introduzione delle condizioni di punibilità risponderebbe ad
un’esigenza in realtà opposta a quella menzionata, consistente nella necessità di sottrarre alcuni
eventi del reato all’area della colpevolezza a causa della difficoltà di provarne in giudizio la natura
dolosa o colposa, con conseguente semplificazione in ordine all’accertamento dell’elemento
soggettivo, al fine di pervenire più agevolmente ad una condanna penale.
Tanto premesso in ordine alla funzione dell’istituto, in dottrina si discute sulla collocazione delle
condizioni obiettive di punibilità all’interno della struttura del reato.
Per l’orientamento dominante le condizioni obiettive di punibilità non integrano il reato, ma
rendono soltanto applicabile la pena: esse, in pratica, corrispondono ad ipotesi nelle quali il reato,
pur essendo perfetto, non viene assoggettato a pena se non si verifica un avvenimento non solo
futuro ed incerto, ma anche estrinseco al fatto che costituisce il reato.
Tale orientamento trae spunto dal tenore letterale dell’art. 44 c.p., il quale, adottando l’espressione
“quando per la punibilità del reato la legge richiede il verificarsi di una condizione’’, sembra
ammettere la possibilità che il reato sia configurabile e quindi già perfetto a prescindere dalla sua
punibilità.
Come espressamente affermato dall’art. 44 c.p., il colpevole risponde del fatto commesso anche se
l’evento dal quale dipende l’avveramento della condizione non è da lui voluto.
L’evento di cui alla norma indicata e dal quale dipende il verificarsi della condizione è da tenere
nettamente distinto dall’evento del reato: qui, infatti, il termine “evento’’ deve essere inteso in senso
atecnico, ossia nel senso di avvenimento che si identifica con la condizione stessa in quanto
verificatasi.
La conferma è contenuta nell’art. 158 c.p.: questo articolo, infatti, nella prima parte dispone che il
termine di prescrizione per il reato consumato decorre dal giorno della consumazione, e cioè da
quello in cui si è verificato l’evento; nel secondo comma afferma poi che quando la legge fa
dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione
decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata.
Se la condizione coincidesse con l’evento, dunque, il secondo comma sarebbe assolutamente
superfluo e non avrebbe di conseguenza ragione di esistere.
Secondo quanto previsto dalla legge, dunque, ai fini della punibilità del fatto non è necessaria
l’esistenza di un nesso psichico tra il reo e la condizione di punibilità, la quale può anche essere non
voluta.
Questo si spiega, in alcuni casi, in ragione del fatto che l’evento che costituisce oggetto della
condizione consiste nel fatto di un terzo, per cui sarebbe irragionevole pretendere che la volontà
dell’agente abbracci eventi che, in quanto realizzati da altri, sfuggono al suo potere di signoria.
Lo stesso deve dirsi con riguardo al nesso di causalità materiale tra la condotta del reo e l’evento
che costituisce l’oggetto della condizione, posto che questo non sempre costituisce un requisito
indefettibile per l’operare delle condizione.
Sulla base di quanto finora detto, si possono così determinare i criteri funzionali all’individuazione
delle condizioni di punibilità.
A tal fine è necessario ricorrere ad indici strutturali e a criteri sostanziali: i primi si riferiscono alla
collocazione dell’elemento all’interno della fattispecie astratta, mentre i secondi sono relativi alla
determinazione dell’interesse tutelato dalla norma.
Sulla base dei criteri strutturali, dunque, dovrebbero essere esclusi dal novero delle condizioni
obiettive di punibilità tutti quegli eventi legati da un rapporto psicologico necessario con l’agente,
posto che l’art. 44 c.p. ne prevede l’efficacia oggettiva.
Sulla base degli indici di natura sostanziale, invece, non potrebbero essere considerate condizioni
obiettive di punibilità tutti quegli eventi in cui si realizza l’offesa al bene giuridico tutelato dalla
norma, dovendo questi essere considerati come elementi costitutivi del fatto.
Quanto al rapporto tra le condizioni di punibilità e l’offesa tipica, si suole distinguere tra condizioni
intrinseche e condizioni estrinseche.
Le prime incidono sull’interesse protetto, concorrendo con la condotta tipica alla realizzazione o
all’aggravamento dell’offesa al bene giuridico oggetto di tutela da parte della norma.
Rientrano in tale categoria, in particolare, il nocumento nei delitti contro l’inviolabilità dei segreti
ex artt. 616, comma 2, 618, 621 e 622 c.p., nonché la pubblicità del luogo nel reato di cui all’art.
414 c.p.
Le condizioni estrinseche sono invece estranee all’offensività del fatto, limitandosi a riflettere
valutazioni di opportunità del legislatore connesse ad un interesse esterno al profilo offensivo del
reato.
Rientrano nella suddetta categoria, l’annullamento del matrimonio nell’induzione al matrimonio
mediante inganno di cui all’art. 558 c.p., la sorpresa in flagranza prevista negli artt. 260, 707 e 720
c.p., nonché la presenza del reo nel territorio dello Stato nei casi contemplati dagli artt. 9 e 10 c.p.
Parte della dottrina, in ragione della mancanza di ogni collegamento delle condizioni estrinseche
con la lesione all’interesse tutelato, ritiene che le stesse siano assimilabili alle condizioni di
procedibilità dell’azione penale.
Tale opinione è invece avversata dalla dottrina dominante: si osserva, in primo luogo, che la pretesa
natura processuale delle condizioni di punibilità c.d. estrinseche non dovrebbe escludere la mera
punibilità del fatto, bensì la conoscibilità dello stesso in capo al giudice.
D’altra parte, qualora tali condizioni avessero realmente natura processuale non si capirebbe
l’inclusione della norma, di cui all’art. 44 c.p., nella parte dedicata alla struttura del reato.
Ciò premesso, non vi sono in dottrina opinioni unanimi circa la natura di alcuni eventi previsti nella
struttura di determinati reati.
Secondo alcuni autori, per esempio, il pericolo della malattia nel reato di abuso dei mezzi di
correzione ex art. 571 c.p. non sarebbe una condizione obiettiva di punibilità, dovendo al contrario
essere considerato vero e proprio evento del reato e quindi oggetto di volizione da parte dell’agente.
Si discute anche sulla natura del pubblico scandalo nel reato di incesto di cui all’art. 564 c.p.:
secondo parte della dottrina, infatti tale evento non può essere considerato alla stregua di una
condizione obiettiva di punibilità, assurgendo invece ad elemento costitutivo del fatto ed in
particolare ad evento nel quale si concreta l’offesa tipica, e come tale deve essere caratterizzato da
un legame di causalità materiale e psicologica con la condotta del reo.
Presupponendo che la condizione obiettiva di punibilità non è caratterizzata dalla sussistenza di un
legame causale con la condotta del reo, e quindi facendo applicazione di criteri di tipo strutturale,
dal novero delle condizioni di punibilità devono infatti essere esclusi tutti quegli eventi legati da un
rapporto di causalità necessaria con l’azione tipica; nello stesso tempo, riferendosi agli indici di
natura sostanziale, devono escludersi da tali condizioni, e considerarsi elementi costitutivi del fatto,
quegli eventi nei quali si incentra l’offesa all’interesse protetto.
Secondo la giurisprudenza dominante, invece, il pubblico scandalo non sarebbe evento del reato ma
condizione obiettiva di punibilità, la cui previsione si giustifica per l’esigenza di non dare
pubblicità, attraverso il processo penale, a fatti incestuosi, finché la loro conoscenza rimanga
circoscritta all’interno delle cerchia famigliare.
Sulla base delle medesime considerazione fatte con riguardo al delitto di incesto, sarebbe da
escludersi dalla categoria delle condizioni di punibilità anche ’’il pericolo per la pubblica
incolumità’’ preveduto dall’art. 423 c.p.: senza quel pericolo, infatti, la fattispecie di incendio di
cosa propria non avrebbe alcun contenuto offensivo, rappresentando una forma di esercizio del
diritto di proprietà sulla cosa; ne consegue che tale pericolo integra necessariamente un elemento
costituivo del fatto e non già un elemento ad esso estraneo.
Ulteriori dubbi ermeneutici sorgono con riferimento alla dichiarazione di fallimento: secondo
l’opinione dominante, essa costituisce condizione di punibilità nei reati di bancarotta c.d.
prefallimentare, mentre assurgerebbe ad evento del reato in quelli di bancarotta postfallimentare.
Parte della giurisprudenza, per contro, ritiene che prima della dichiarazione di fallimento non esista
un reato perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi, ma solo fatti penalmente indifferenti, per cui la
dichiarazione di fallimento sarebbe l’evento del reato e non invece una condizione obiettiva di
punibilità.
Detto questo, da ultimo occorre analizzare il rapporto tra le condizioni di punibilità ed il principio di
colpevolezza di cui all’art. 27 della Costituzione.
Stante l’assenza di qualsivoglia legame psicologico con il reo, infatti, vi è il rischio che il ricorso a
tali condizioni consenta di sottrarre alla disciplina del dolo e delle colpa elementi che dovrebbero
invece essere considerati come costitutivi del fatto di reato e quindi essere legati da un nesso di
causalità psicologico con l’autore del fatto.
Si pone così un problema di compatibilità con il principio di colpevolezza, così come di recente
interpretato dalla Consulta, secondo il quale tutti gli elementi dai quali dipende il disvalore penale
del fatto devono essere attribuiti all’agente quantomeno a titolo di colpa.
La questione inerente alla compatibilità tra le condizioni obiettive di punibilità ed il principio di
colpevolezza si aggrava nel caso in cui sussistano eventi suscettibili di condizionare l’offesa insita
nel fatto tipico, approfondendola o aggravandola, ovvero in presenza di una condizione obiettiva di
punibilità intrinseca.
Sulla base di queste considerazioni, si è così sostenuto che le condizioni obiettive di punibilità
offensive, e cioè intrinseche, non possono sottrarsi al principio di colpevolezza in quanto elementi
che concorrono a delineare il disvalore della fattispecie.
Per la loro imputazione, pertanto, è necessaria almeno la colpa, intesa come inosservanza di regole
cautelari aventi funzione preventiva.
Da qui la natura mista delle condizioni obiettive di punibilità intrinseche, in parte di elemento
essenziale del reato ed in parte di circostanza.
Tale soluzione, d’altronde, risulta pienamente compatibile con il disposto dell’art. 44 c.p., il quale,
ammettendo che l’evento condizionale possa essere anche “non voluto’’, esclude soltanto che il
dolo costituisca un presupposto necessario per l’imputazione dell’evento medesimo, mentre nulla
dice sulla colpa, non impedendo dunque all’interprete di richiederne la presenza in una prospettiva
di ricostruzione in chiave costituzionale orientata dell’istituto.
Avv. Riccardo Cuccatto