Le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni telefoniche, con particolare riferimento all’utilizzo del Trojan virus

Come e quando è possibile utilizzare il trojan virus?

Il codice di procedura penale non contiene una definizione della nozione di “intercettazione di conversazioni o di comunicazioni telefoniche”.

Nel silenzio del legislatore, è stata la giurisprudenza a fornire una definizione al riguardo: la Corte Costituzionale e le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che: “l’intercettazione consiste nell’apprensione clandestina, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione riservate tra due o più soggetti, effettuata da un soggetto estraneo al colloquio”.

Successivamente, le medesime Sezioni Unite hanno definito l’intercettazione come: “la captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione tra due o più interlocutori, che agiscano con l’intento di escludere altri, operata da un soggetto estraneo alla stessa, mediante apparecchiature idonee a fissare l’evento ed a vanificare le cautele normalmente poste a protezione del carattere riservato del colloquio”.

Le intercettazioni di comunicazioni e conversazione telefonica sono dei mezzi di ricerca della prova. Per poter dare avvio alle intercettazioni è necessario che il PM chieda l’autorizzazione al GIP, qualora quest’ultimo emani un provvedimento motivato, l’intercettazione può avere luogo. Vi è però un caso di urgenza, dal momento in cui il PM si trovi di fronte ad un caso urgente e deve immediatamente intercettare, può dare avvio all’attività di intercettazione ma è necessario che il GIP entro e non oltre le 48 ore, autorizzi il PM, se il GIP, non emette il provvedimento motivato, il PM dovrà immediatamente bloccare l’intercettazione avviate e distruggerle.

Sulla materia delle intercettazioni è intervenuta la riforma Orlando, dlgs nr. 2016/2019.

Tale riforma ha rafforzato la tutela della riservatezza delle persone intercettate, ma in particolar modo ha disciplinato il corretto funzionamento del “trojan virus”, o anche detto, “captatore informatico”.

Negli ultimi anni si è ingerito nel panorama investigativo, con sempre maggiore frequenza, il captatore informatico, un software (rectius: malware) di tipo trojan che si introduce occultamente nelle “mura protette” di un sistema informatico.

Il peculiare strumento intercettivo costituito dal captatore informatico, il cui ambito applicativo, negli ultimi anni, scevro di una disciplina legislativa di riferimento, era stato demandato evoluzione giurisprudenziale, conosce un sempre più frequente impiego da parte degli inquirenti. Infatti, il trojan virus utilizza una tecnica informatica conosciuta come Remote Control System (RCS), la quale permette un controllo totale da remoto del sistema infettato, consentendo così agli investigatori di acquisire un ampio materiale conoscitivo, potenzialmente consistente in ogni atto quotidiano della vita di un soggetto.

Relativamente alla captazione dei flussi informatici la norma di riferimento per le intercettazioni è l’art .266- bis c.p.p., l’intercettazione consiste nell’apprensione in tempo reale del contenuto di una comunicazione in atto, quando questa è riferita ad una conversazione orale in corso di svolgimento fra più persone e quando la comunicazione non riguarda una conversazione orale ma un flusso digitale fra più sistemi informatici o telematici diversi o all’interno di uno stesso sistema.

Queste ultime previsioni non risultano modificate dalla recente riforma delle intercettazioni, ad eccezione della materia dei flussi intercettati che hanno subito modifiche di cui al DLGS n. 216 del 28 Dicembre 2017.

Con il d.lgs. de quo, il Governo ha dato seguito alla delega legislativa attribuitagli dall’art. 1, comma 84, l. 23 giugno 2017, n. 103 per riformare il delicato tema delle intercettazioni, i cui criteri direttivi, almeno secondo parte della dottrina, sono così dettagliati da far pensare ad una veste normativa pressoché definitiva. La ratio riformatrice è posta nella tutela della riservatezza dei soggetti solo occasionalmente coinvolti dallo strumento captativo e, come tale, almeno secondo la relazione di accomunamento del decreto, l’intera novella dovrebbe essere interpretata alla luce della predetta garanzia a tutela della privacy.

Per quanto qui di interesse, la novella volta a disciplinare e a circoscrivere l’ambito applicativo del Trojan virus è lacunosa, essendo limitata sia dal punto di vista delle potenzialità intrusive del captatore informatico, sia da quello del dispositivo infettabile: il parlamento, infatti, si è preoccupato di delegare il governo assumendo quale punto di riferimento esclusivamente i principi dettati dalla sentenza Scurato pronunciata dalla Suprema Corte nel suo massimo consesso.

Una riforma, quindi, da questo punto di vista, anacronistica ab origine. Tale affermazione è peraltro suggellata, sempre in linea con quanto previsto dalla legge delega, il Governo ha stabilito che la peculiare modalità captativa possa avvenire esclusivamente con l’inoculazione del trojan virus «anche» in un dispositivo elettronico target dotato del carattere della “portabilità” («dispositivo elettronico portatile» art. 266, comma 2, primo periodo c.p.p.).

In primo luogo si nota come vi sia la possibilità che sul concetto di “dispositivo elettronico portatile” si apra un nutrito dibattito in sede giurisprudenziale e dottrinale, dal momento che vi sono alcuni dispositivi che si situano in una “zona grigia” tra la nozione di portatile e di fisso. Si pensi, per fare un esempio, a un laptop, eventualmente con un malfunzionamento della batteria.

Date le dimensioni e una libertà di locomozione certamente non agile, è possibile ricomprendere il detto dispositivo tra quelli portatili richiamati dalla norma? La risposta ad una simile domanda, veicola il regime di utilizzabilità dibattimentale dell’intercettazione itinerante. La scelta legislativa che, a prima vista, sembra circoscrivere l’intercettazione virale ai soli dispositivi portatili non convince. Come noto, infatti, qualsiasi apparecchiatura dotata di una connessione internet può essere infettata dal trojan virus e, come tale, essere il veicolo per le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni tra presenti (si pensi, tra gli altri, ai PC fissi dotati di microfono e videocamera, alle televisioni smart, ma anche alle telecamere di sicurezza). Può accadere, e nella pratica si verifica, che gli investigatori abbiano il fondato motivo di ritenere che all’interno di un determinato luogo si stia svolgendo l’attività criminosa, ma che, al contempo, non sia ancora iscritto nel registro degli indagati alcun soggetto: in tali casi, non vi è la possibilità per la Procura della Repubblica di disporre l’intercettazione ambientale con la tecnologia de qua – sebbene possa essere indispensabile ai fini della prosecuzione delle indagini – ma solamente con i mezzi “tradizionali”, ossia con il posizionamento di un dispositivo captativo (c.d. cimice) fisicamente all’interno del luogo oggetto di indagine. Non può revocarsi in dubbio che una simile operazione possa comportare gravi rischi per l’incolumità degli ufficiali e agenti di PG deputati ad espletare tale incombente, nonché per la segretezza delle indagini, i quali avrebbero potuto essere annullati laddove il legislatore avesse disciplinato anche certe situazioni. Vi è di più. Se il legislatore avesse disciplinato la materia come sopra auspicato, non sarebbe certamente venuto meno all’idea riformatrice di tutela della riservatezza per almeno due ordini di ragioni:

In primo luogo, un’intercettazione captativa itinerante si inserisce con forza lesiva maggiore nella sfera privata del soggetto rispetto a un’intercettazione tradizionale;

In secondo luogo, se vi è il fondato motivo di ritenere che all’interno di un determinato luogo – anche di privata dimora – si stia svolgendo un’attività criminosa, l’intercettazione ambientale può in ogni caso essere disposta, il risultato a cui si perviene è il medesimo: l’acquisizione di tutto ciò che viene ascoltato all’interno del locale.

L’unica differenza è il mezzo con il quale l’intercettazione viene effettuata. In altre parole, medesimi sono i risultati, medesimo è il livello di lesione della riservatezza dei soggetti che frequentano il luogo destinatario della captazione, differente è la modalità captativa: si è in presenza di una illogicità normativa riscontrabile ictu oculi, infatti molto importante è anche la funzione di audio-captazione, il legislatore delegante, oltre a voler circoscrivere la funzione captativa del virus informatico alle sole intercettazioni itineranti – sebbene si ritenga in via interpretativa di poter ammettere l’utilizzabilità della funzione di “intercettazione ambientale statica” del trojan virus – ha altresì palesato la volontà di delimitare ulteriormente la captazione alla sola registrazione audio.

Tale volontà traspare nitidamente nell’ art. 1, comma 84, lett. e, n. 1, l. 103/2017, il quale prescrive che «l’attivazione del microfono avvenga solo in conseguenza di apposito comando inviato da remoto»; nonché nell’ art. 1, comma 84, lett. e, n. 2, l. 103/2017, che si riferisce espressamente alla «registrazione audio» che deve essere avviata dalla polizia giudiziaria.

Il chiaro tenore letterale della norma, quindi, sembra escludere in ogni caso la possibilità di effettuare video riprese di comportamenti comunicativi: a differenza di quanto previsto in tema di intercettazioni “tradizionali”, che si riferiscono semplicemente a intercettazioni di comunicazioni e conversazioni, l’art. 267, comma 1, c.p.p., imponendo i tempi e i luoghi di attivazione del microfono pare escludere ex ante la possibilità di utilizzare un tale strumento. Con la recente riforma si è di fronte al medesimo problema, con l’unica differenza che risiede nella protasi del paradigma ipotetico: se si ritiene possibile ricorrere all’intercettazione con captatore informatico effettuando audio registrazioni ambientali-fisse, allora è possibile utilizzare il medesimo strumento finanche per le riprese visive di comportamenti comunicativi?

Secondo una condivisibile opinione dottrinale, è d’uopo effettuare un rimando alla disciplina generale sul tema «e, nello specifico, ai principi enucleati da Cass., SS.UU., sentenza n. 26795/2006 che ha ribadito il divieto delle riprese visive di comportamenti non comunicativi avvenuti in ambito disciplinare», con la precisazione, però, che le operazioni di video ripresa non potranno essere effettuate nel caso in cui si proceda a un’intercettazione captativa-itinerante.

Per quanto riguarda la procedura autorizzativa, al giudice per le indagini preliminari è richiesto un rafforzato onere motivazionale nel caso in cui debba autorizzare un’intercettazione virale-itinerante, comportante non solo la già descritta indicazione del tempo e del luogo ove è consentita l’attivazione del microfono, bensì anche «le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini» (art. 267, comma 1, c.p.p.).

La motivazione in ordine alle ragioni di necessarietà dell’agente intrusore, in ogni caso, non deve essere considerata in «termini assoluti», dal momento che non si devono confondere il piano dei presupposti dell’attività intercettiva con quello dei presupposti applicativi dello strumento virale. Invero, questo secondo piano si riferisce semplicemente alle modalità esecutive dell’intercettazione, la quale comunque deve possedere i requisiti generali dell’assoluta indispensabilità ai fini della prosecuzione delle indagini ovvero della necessarietà per lo svolgimento delle stesse, rispettivamente se si procede per un delitto comune o uno di criminalità organizzata a cui si applica la disciplina derogatoria di cui all’art. 13 d.l. 152/1991. Inoltre, l’utilizzo del termine «necessarietà» – utilizzato dall’art. 267, comma 1, c.p.p. – indica già di per sé un quid minus rispetto alla «assoluta indispensabilità» richiesta dal secondo periodo del comma 2 del medesimo articolo. Ragionando in termini differenti, si finirebbe col gravare il giudice di uno sforzo motivazionale talmente ingente da rendere quasi impossibile procedere con il peculiare strumento captativo itinerante: deve dunque ritenersi che «non sarà comunque necessaria la prova del fatto che il ricorso a tale peculiare forma di intercettazione sia l’unico strumento operativo praticabile».

Vi possono comunque essere dei casi in cui è impossibile attendere il provvedimento autorizzativo del GIP che potrebbe giungere in un momento in cui si è già verificato un pregiudizio per le indagini. Il legislatore, quindi, con una disposizione «francamente irragionevole» e che «desta perplessità», ha introdotto nell’ordinamento il nuovo comma 2 bis dell’art. 267 c.p.p, in forze del quale: “ il Pubblico Ministero può disporre l’intercettazione itinerante in casi di urgenza solamente se procede per uno dei delitti indicati all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater c.p.p., con l’onere motivazionale aggiunto di indicare le ragioni di urgenza per le quali è impossibile attendere il provvedimento giudiziale”.

La disposizione in esame ha suscitato le critiche dei primi commentatori che ne ravvisano profili di incostituzionalità per violazione quantomeno dell’art. 3 Cost. Questi, infatti, ritengono che si è in presenza di una «iniqua disparità di disciplina», sia perché non vi sarebbe alcuna ragione per differenziare il trattamento tra reati “ordinari” e reati di criminalità organizzata o terroristica, sia perché in ogni caso al GIP è rimesso un controllo successivo sui presupposti del decreto d’urgenza. Il legislatore ha tracciato il solco delle cause di inutilizzabilità dei risultati intercettivi itineranti, non senza allontanarsi in alcuni punti da quanto indicato dai criteri direttivi della legge delega, che possono essere così riassunte:

  1. Mancata osservanza delle disposizioni dettate dall’art. 267 c.p.p.: in questa sede rileva particolarmente la mancata indicazione nel decreto autorizzativo del giudice per le indagini preliminari delle ragioni di necessità della procedura captativa e dell’indicazione spazio-temporale della stessa (art. 271, comma 1, c.p.p.);
  2. Mancata osservanza delle disposizioni di cui all’art. 268, commi 1 e 3, c.p.p., i quali prescrivono rispettivamente la necessaria redazione del verbale delle operazioni compiute e la possibilità operativa di ricorrere a impianti esterni alle procure della Repubblica solo per eccezionali ragioni di urgenza (art. 271, comma 1, c.p.p.);
  3. Inutilizzabilità dei dati acquisiti «nel corso delle operazioni preliminari all’inserimento del captatore informatico sul dispositivo elettronico portatile (art. 271, comma 1 bis, c.p.p.);
  4. Inutilizzabilità dei dati acquisiti «al di fuori dei limiti di tempo e di luogo indicati nel decreto autorizzativo» (art. 271, comma 1 bis, c.p.p.);
  5. Inutilizzabilità delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile «per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione», fatta salva l’indispensabilità per l’accertamento di delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 270, comma 1 bis, c.p.p.).

Recentemente, in materia di intercettazioni è intervenuta la Legge nr. 07 del 28 febbraio 2020, la quale ha apportato delle modifiche all’art. 266; in particolare, il comma 1 -bis:

“Fermo restando quanto previsto dal comma 1, i risultati delle intercettazioni tra presenti operate con captatore informatico su dispositivo elettronico portatile possono essere utilizzati anche per la prova di reati diversi da quelli per i quali è stato emesso il decreto di autorizzazione qualora risultino indispensabili per l’accertamento dei delitti indicati dall’articolo 266, comma 2 -bis ”.


Dott.ssa Federica Schiavone