Lease back e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte: fra libertà contrattuale e sostanza economica

1. Il contratto di lease back nel diritto civile

Il contratto di lease back – fattispecie contrattuale mutuata dall’ordinamento statunitense, nel quale era presente da tempo risalente[1]- è privo di una propria disciplina legale e la sua regolamentazione è ricavata, dalla giurisprudenza di legittimità, per il tramite del richiamo alla normativa in tema di vendita con patto di riservato dominio di cui all’art. 1523 c.c., del contratto di locazione di cui all'art. 1571 c.c. e del ben più noto e diffuso contratto di leasing, la cui somiglianza con il negozio è evidente tanto da parlarsi, con riferimento a quest’ultima fattispecie negoziale, di “locazione finanziaria di ritorno”. Nel caso in esame, infatti, l’imprenditore vende alla società finanziaria un bene di sua proprietà, che poi quest'ultima le concederà in leasing; in tal modo l'imprenditore, alienando il bene, si procura la liquidità necessaria alla sua azienda mantenendo al contempo il godimento del bene e può anche riacquistarne la proprietà al termine del contratto, esercitando l'opzione di acquisto2.

A fronte della menzionata ragione economica del contratto di lease back e delle analogie con altri negozi giuridici già conosciuti dal nostro ordinamento, la giurisprudenza in un primo momento ha assunto nei confronti di tale istituto un atteggiamento di sostanziale chiusura, sulla base essenzialmente di sostanziali differenze con il contratto di leasing ed in ragione di ritenute frizioni con il divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.

In relazione al primo profilo, in effetti, emerge ictu oculi la diversa configurazione del contratto di lease back rispetto al contratto di leasing, il quale, pur condividendo con il primo la mancanza di disciplina legale nazionale, trova invece ben saldi riferimenti normativi nell’art. 17 della l. 183/197, nei nuovi artt. 136-139 della l. 124/2017 e, a livello sovranazionale, nella Convenzione UNIDROIT di Ottawa del 28 maggio 1988.

Come è noto, il contratto di leasing prevede che un imprenditore possa acquistare la disponibilità economica di un bene mobile o immobile, senza dover erogare in un'unica soluzione il prezzo. Pertanto, lo schema negoziale di questa fattispecie prevede sotto il profilo economico la partecipazione di tre soggetti: (i)l’imprenditore -che è utilizzatore e acquirente del bene- (ii)la società di leasing -concedente- e (iii)il produttore del bene concesso in leasing; riguardata in ottica giuridica, invece, lo schema negoziale ha natura bifasica e determina un’operazione complessa composta dall’interconnessione di due distinti e autonomi contratti, ovvero il contratto di fornitura e il contratto di leasing.

Assai diverso lo schema negoziale del contratto di lease back, in cui - nonostante si sia in presenza di uno schema negoziale composito, i soggetti, tanto sotto un profilo economico che giuridico, sono solo due: l’imprenditore che è anche proprietario del bene e la società di leasing. In sostanza, parrebbe ad una prima lettura che il lease back sia affetto da un’anomalia strutturale, mancando la figura del terzo soggetto, per cui il contratto assume una struttura bilaterale in cui l’utilizzatore si identifica nel fornitore. Proprio tale circostanza ha generato numerosi interrogativi, ormai risolti dalla giurisprudenza, circa l‘ammissibilità del ricorso a tale strumento negoziale in relazione soprattutto alla determinazione della causa del contratto ed alla sua eventuale illiceità.  

Con riferimento invece al secondo aspetto, che come anticipato nelle battute precedenti inerisce la causa del contratto di lease back, la giurisprudenza e la più avveduta dottrina hanno sin da subito rilevato possibili frizioni con il divieto di patto commissorio e con l’attigua figura del patto marciano[2].

In particolare, tale schema atipico - astrattamente inquadrabile come alienazione a garanzia di un finanziamento - potrebbe essere considerato non meritevole di tutela in relazione alla prescrizione di cui all’ art. 2744 c.c., diretta, come è noto, a tutelare gli interessi del debitore (pregiudicabili sia dalla possibile sproporzione tra l'ammontare del debito e il valore del bene che da una inammissibile inammitutela privata esecutiva) e degli altri creditori estranei al patto (poiché esso potrebbe creare una causa di prelazione non prevista dalla legge), oltre che inteso a ribadire - in una visione pubblicistica della ratio del divieto, fondata sulla grave sanzione della nullità conseguente alla violazione del divieto di patto commissorio - anche un “principio di ordine pubblico economico”[3].  

Per escludere la violazione dell’art. 2744 citato, dottrina e giurisprudenza, hanno evidenziato come il menzionato contrasto potrebbe essere escluso in presenza di determinate condizioni, il cui rispetto garantirebbe che la stipula di un negozio di lease back non possa essere diretta ad eludere il divieto di cui all’art. 2744 c.c.

In dottrina, si sostiene che la ratio del negozio in esame non è quella propria della vendita a scopo di garanzia essendosi piuttosto in presenza di una alienazione diretta alla stipula di un negozio di leasing, di cui la vendita è l'antecedente necessario. In sostanza, si vende il bene per stipulare poi il contratto di leasing e non per garantire un finanziamento che non è stato ancora stipulato[4]: si sarebbe dunque in presenza di una mera alienazione, senza condizioni o patti accessori, mentre il patto di opzione per il riacquisto accede direttamente al leasing. Il contratto di lease back sarebbe dunque un’unica operazione che non andrebbe frazionata ma, per l’appunto, considerata unitariamente avendo riguardo allo scopo cui le parti mirano e cioè “l’ottenimento di un finanziamento diretto ed immediato mentre l'operazione di leasing sottostante è un meccanismo per mantenere il godimento del bene (mediante costituto possessorio)[5]”.

Tale analisi del contratto è stata contrastata in specie dall’Amministrazione Finanziaria[6], che aveva escluso la possibilità di ricondurlo allo schema della locazione finanziaria per diversità di cause e struttura. Tale orientamento è stato poi successivamente superato dalla giurisprudenza civile che, in un primo momento, si limitava ad imporre una valutazione di carattere generale volta ad escludere la natura di alienazione a scopo di garanzia nel caso concreto, per poi, come accennato, avvedutamente formalizzare i criteri la cui integrazione determina l’illegittimità del negozio ed in assenza dei quali lo stesso va ritenuto valido[7].

La Cassazione ha infatti anzitutto riconosciuto che lo schema negoziale del lease back presenta un’autonomia strutturale e funzionale propria che consente di qualificarlo come contratto d’impresa[8]-[9] - per poi, con la sentenza n. 16646 del 6 luglio 2017, individuare delle alterazioni dello schema negoziale originario che sarebbero sintomatiche di un intento di frodare la legge ed in particolare (i) l’esistenza di crediti e debiti pregressi o contestuali alla vendita tra imprenditore-venditore e concedente; (ii) l’esistenza di obiettive difficoltà economiche dell’imprenditore, che getterebbero dubbi su un possibile approfittamento del concedente; (iii) l’oggettiva valutazione del valore del bene molto superiore rispetto al corrispettivo versato dall’acquirente.

Come si vede, la Cassazione, per decidere della conformità del contratto in parola, sceglie di porre l'accento sulla causa effettiva dell'operazione ed infatti richiama l’importanza della funzione che in concreto le parti intendono perseguire già individuata in dottrina come prospettiva esegetica da percorrere. I giudici di legittimità dunque sanzionano i casi in cui nel lease back “lo scopo di garanzia costituisca non già mero motivo del contratto ma assurga a causa concreta della vendita con patto di riscatto o di retrovendita”, mentre ritengono di non dover formulare rilievi qualora invece le parti contraenti manifestino un’esplicita volontà di porre in atto il collegamento negoziale che “si realizza attraverso la creazione di un vincolo tra i contraenti che, nel rispetto della causa e dell’individualità di ciascuno, li indirizza al perseguimento di una funzione unitaria che trascende quella dei singoli contratti e investe la fattispecie negoziale nel suo complesso”[10], senza fraudolenta elusione del divieto stabilito dall'art. 2744 c.c.

In conclusione, la Cassazione riconosce all’imprenditore, nella gestione dell’azienda, il diritto di optare per forme di smobilizzazione di investimenti effettuati in passato e che non risultano più coerenti con la gestione operativa. In quest’ottica, vengono considerati leciti tutti i contratti di lease back stipulati secondo lo schema negoziale tipico, sempre che non ricorrano le condizioni che si sono dette in precedenza.  

Quanto invece ai rapporti fra lease back e patto marciano - il quale, come è noto, si sostanzia in un patto compromissorio che tuttavia vede inserita una clausola che ristabilisce l’equilibrio sinallagmatico semplicemente imponendo una stima del bene-, vi è una qualche sovrapposizione fra le due figure, in ragione del fatto che, come per il contratto di lease back, la cui ammissibilità è subordinata alla sussistenza di motivazioni delle parti meritevoli di tutela, per il patto marciano la previsione di una stima del bene non sproporzionata rispetto al corrispettivo versato dall’acquirente, o comunque la pattuizione di criteri di stima, esclude che il creditore garantito possa ottenere un indebito vantaggio in danno del debitore[11]. Alla luce di tali considerazioni, la Suprema Corte aveva avuto modo di indicare proprio la cautela Marciana come strumento idoneo a scongiurare l’illiceità”[12] del contratto di lease back, statuendo pertanto l’assoluta liceità dei contratti stipulati in tal guisa indipendentemente dal rispetto degli ulteriori criteri enucleati dalla successiva sentenza n. 16646 del 2017.

2. Il lease back nell’ordinamento tributario

Il contratto di lease back presenta risvolti d’interesse anche a livello tributario, in conseguenza delle criticità sorte in relazione al trattamento fiscale di tale negozio. In particolare, tale tipo contrattuale ha rappresentato per più versi terreno di scontro fra l’Amministrazione Finanziaria ed i contribuenti, ed invero le frizioni sottolineate a livello dottrinale nonché gli approcci giurisprudenziali in tema hanno evidenziato problemi interpretativi di carattere generale, a cui il legislatore ha posto rimedio non solo con specifico riguardo al lease back ma investendo l’intero sistema tributario nazionale.

Premettendo che la società che stipula un contratto di lease back è tenuta a rilevazioni contabili ed annotazioni a bilancio inerenti principalmente (i) alla cessione del bene alla società di leasing (con storno del relativo fondo di ammortamento ed eventuale rilevazione della plusvalenza o minusvalenza), (ii) al pagamento dei canoni di locazione, (iii) al riscatto finale del bene, (iiii) alle annotazioni nei conti d’ordine, nel sistema dei beni di terzi e nel sistema degli impegni, è necessario rilevare che, come detto, il trattamento fiscale di tale fattispecie contrattuale ha presentato, a valle della configurabilità civilistica dello stesso, problematicità con riferimento in primo luogo al trattamento fiscale delle plusvalenze ed in seconda battuta alla sua potenzialità elusiva con riferimento prima all’art. 37 bis del DPR 600/73 e, adesso, all’art. 10 bis della l. 212/2000[13].

In relazione al primo profilo, è necessario premettere che i principi contabili nazionali (OIC 12) riconoscono all’operazione di sale and lease back la natura di operazione di finanziamento. L’art. 2425 bis c. 4 c.c., introdotto dall’art. 16 del DLgs. 310/2004, disciplina il trattamento contabile di eventuali plusvalenze derivanti dalla vendita iniziale del bene alla società di leasing, prevedendo che l’eventuale plusvalenza, data dalla differenza positiva tra prezzo della vendita e valore contabile netto del bene, debba essere ripartita in funzione della durata del contratto di leasing finanziario.

Come chiarito nei paragrafi precedenti, il contratto di lease back configura un’operazione unitaria con causa di finanziamento - ed in questo senso è necessario distinguerlo anche a fini fiscali dal leasing operativo[14]- la quale tuttavia veniva tassata con modalità differenti tra soggetti IAS-adopter e non adopter. Con riferimento ai soggetti IAS-adopter, il sistema di derivazione rafforzata già inserito nell’art.83 TUIR permetteva di differire ed ammortizzare qualsiasi differenza tra il ricavo di vendita ed il valore contabile dell’attività venduta sulla durata del contratto. Per i soggetti non adopter invece era prevista una modalità differente e svantaggiosa sotto il profilo economico, richiamata in prima battuta dalla circolare n. 38/E del 2010, che imponeva che la plusvalenza rilevasse secondo le regole ordinarie dell’articolo 86 del TUIR[15].

Secondo questo originario orientamento, nel contratto di lease back sussistevano, a livello fiscale, due distinte operazioni, quali la cessione del bene e la locazione finanziaria dello stesso. Su questo assunto, l’Amministrazione finanziaria riteneva che, in relazione alla cessione del bene strumentale oggetto del contratto, fosse applicabile la relativa disciplina di cui all’art. 86 TUIR (in caso di plusvalenza) e di cui all’art. 101 TUIR (in caso di minusvalenza). In ossequio a tale orientamento si generava dunque una divergenza tra la disciplina civilistico-contabile - che prevede l’imputazione della plusvalenza lungo la durata del contratto - e quella fiscale - che prevederebbe la tassazione nell’esercizio di realizzo della plusvalenza, con la conseguente necessità di procedere all’iscrizione in bilancio della fiscalità differita17.

Tale orientamento risultava di segno opposto rispetto alla giurisprudenza[16] ed alla dottrina maggioritaria, ed inoltre riduceva l’appetibilità dello stesso contratto di lease back - potendo ridurre significativamente il cash-in connesso alla cessione. A seguito dell’introduzione nel 2016 del principio di derivazione rafforzata anche per i soggetti che redigono il bilancio secondo il codice civile[17], l’Amministrazione Finanziaria è stata chiamata a rimediare a tale ingiustificata differenziazione: con la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 23 giugno 2017 n. 77/E, essa ha infatti definitivamente stabilito che l’eventuale plusvalenza debba essere tassata con la medesima imputazione temporale prevista contabilmente, anche con riferimento ai soggetti non adopter.

Alla luce della nuova formulazione dell’articolo 83 del TUIR, l’imputazione temporale prevista in ambito civilistico per l’operazione di lease back assume rilevanza anche ai fini fiscali. In questo caso, il legislatore è intervenuto (con l’art. 13-bis del decreto “Milleproroghe”) accogliendo la tesi della giurisprudenza maggioritaria[18], che intendeva il lease back come contratto unitario con causa di finanziamento, smentendo le determinazioni assunte in un primo momento dall’Amministrazione Finanziaria. Anche con riguardo al tema dell’abuso del diritto, già prima dell'intervento legislativo attuato tramite il d.lgs. 05.08.2015 n. 128 che ha riscritto le disposizioni del vecchio art. 37 bis DPR 600/73 e ricollocate nel nuovo art. 10 bis l. 212/2000, la Cassazione si era pronunciata con chiarezza in tema di lease back affermando il principio secondo cui un contribuente che si trova in una determinata situazione giuridica, generatrice di determinati effetti fiscali, non è obbligato a conservarla per tutta la vita, ma è libero di modificarla ponendosi in una differente posizione fiscale ad esso maggiormente favorevole, poiché “il soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”[19]. Tale principio di diritto, ribadito peraltro sempre nel 2015 da un'altra pronuncia della Cassazione[20], è stato ritenuto estendibile anche ad altre operazioni pertinenti il tema dell’abuso del diritto, rappresentando una corretta interpretazione del nuovo dettato normativo.

Si noti dunque come il lease back abbia rappresentato uno strumento di evoluzione normativa sia in relazione al principio di derivazione rafforzata che con riguardo all' elusione tributaria, comprensibile solo in considerazione della sua grandissima utilità per le imprese e, dunque, della sua vasta applicazione.

2.1   Lease back ed elusione fiscale

Nell’ambito tributario, il tema di maggiore interesse (che, come vedremo, presenta significativi riflessi anche con riferimento al diritto penale) che investe il contratto di lease back è quello inerente alla potenziale elusività di tale contratto, posto che in più occasioni si è ritenuto – o quanto meno dubitato – che mediante tale struttura negoziale venissero poste in essere operazioni prive di reale consistenza economica ed aventi quale unico la riduzione della pressione fiscale sul patrimonio del debitore – che otterrebbe tale scopo alienando formalmente un suo bene che tuttavia rimane nella sua disponibilità.

Questa impostazione è stata elaborata prima della formulazione normativa del divieto di abuso del diritto di cui al noto art. 37 bis, quando la Cassazione affermò che l’ammissibilità (a fini fiscali) di figure contrattuali atipiche era subordinata alla circostanza che a mezzo delle stesse si intendesse “realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico”, escludendo che in tale novero potesse rientrare l’ipotesi in cui la contrattazione fosse diretta ad ottenere solo un risparmio fiscale[21]. Queste decisioni, dunque, aprivano una differenziazione fra legittimità del ricorso a forme negoziali atipiche per ciò che attiene il diritto civile e per quanto atteneva il settore tributario, così che la rilevanza attribuita dall'ordinamento fiscale a fatti di elusione tributaria ed abuso del diritto ben poteva investire anche “atti di autonomia privata leciti dal punto di vista civilistico”.

In particolare, per lungo tempo è stato ritenuto indebito il vantaggio fiscale conseguente alla stipula di un contratto di lease back, consistente per il concedente-acquirente nella possibilità di detrarre l’IVA sul prezzo di acquisto del bene e, ai fini dell’imposizione diretta, di dedurre le relative quote di ammortamento nella misura risultante dal relativo piano di ammortamento finanziario ex art. 102 c.7 TUIR; all’utilizzatore-cessionario, di contro, veniva negata la possibilità di dedurre i canoni di leasing ed al contempo, in caso di esercizio del diritto di riscatto del bene, di ammortizzare il relativo prezzo ai fini delle imposte sui redditi. Seguitamente, nel leading case Marangoni Pneumatici, la Cassazione giungeva ad enucleare il principio di diritto secondo il quale “il contratto di leasing di beni ammortizzabili stipulato fra due società del medesimo gruppo realizza una abuso di diritto tributario”[22], come dimostrato dalla circostanza che il contratto in tali circostanze non fosse supportato da valide ragioni economiche non determinando l’acquisizione da parte della società cedente di una maggior quantità di denaro.

La dottrina ha da sempre contestato questo orientamento della Corte di Cassazione sostenendo, specie dopo l’accennata introduzione normativa del divieto di abuso del diritto, che l’impostazione giurisprudenziale suddetta faceva derivare, in modo “del tutto inaccettabile”[23], la natura indebita del risparmio d'imposta ottenuto mediante la stipula di un determinato negozio giuridico dalla insussistenza, alla base della conclusione dello stesso, di valide ragioni economiche, con conseguente drastica ed immotivata limitazione dell’autonomia dei privati – specie laddove, come si riteneva si verificasse in presenza di contratti di lease back, non si riscontrassero indici di anomalia o irragionevolezza nella vicenda. Tali considerazioni hanno poi finito per trovare ascolto nella giurisprudenza, che ha fatto segnare un significativo revirement – con conseguenti significative ricadute anche sul tema dell’abuso del diritto in ottica più generale - con la sent. 25758/2014[24].

Nella vicenda di fatto che fa da sfondo a questa decisione, era indiscussa la circostanza della totale assenza di “ragioni economiche” ulteriori rispetto al risparmio di imposta, il quale si concretizzava nel vantaggio per l’alienante di dedurre l'intero importo dei canoni di leasing in svariati anni in luogo della deduzione per un periodo molto più lungo delle quote di ammortamento dell’immobile (se mantenuto in proprietà) e degli interessi passivi sul mutuo. La Cassazione, rilevando che “non è dato rinvenire nell’ ordinamento tributario alcun obbligo giuridico del soggetto che ha acquistato la proprietà del bene immobile strumentale di rimanere necessariamente vincolato a tale regime fiscale” ha affermato che la pattuizione delle condizioni del contratto di lease back non è espressione di alcuna anomalia od irragionevolezza rispetto all’ordinaria logica d'impresa poiché è rimessa l'esercizio dell'autonomia privata la ricerca della forma di finanziamento ritenuta più opportuna. Il principio di diritto enucleato dalla sentenza in esame, dunque, è che il soggetto che si trova in una determinata situazione o posizione fiscale non è costretto a conservarla in modo permanente, ma è libero di modificarla discrezionalmente acquisendo uno status fiscale per lui maggiormente favorevole, non potendosi configurare un'ipotesi di abuso del diritto in presenza della scelta del contribuente di porre in essere, fra le diverse possibili, l'operazione negoziale fiscalmente meno onerosa.

La Cassazione, dunque, dal 2014 sostenne la piena liceità, anche sotto il profilo fiscale, del contratto di lease back, quando lo stessi risulti stipulato secondo l’ordinaria logica d'impresa ed in assenza di elementi “anomali” o “irragionevoli”, dovendosi riconoscere all’imprenditore la facoltà di poter decidere tra due differenti titoli di possesso per l'acquisizione di un medesimo bene, senza che la scelta di uno o dell'altro possa presentare elementi manifestamente “illogici” od “antieconomici” tali da far supporre un uso distorto del titolo preferito. In particolare, (i) rientra nella libera determinazione del contribuente la facoltà di optare tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale, (ii) la decisione del contribuente di porre in essere un'operazione rispetto ad un'altra non è sindacabile sotto il profilo dell’opportunità ma soltanto sotto il profilo della manifesta illogicità od antieconomicità dell'operazione[25], (iii) la condotta abusiva può essere accertata soltanto ove vi sia un uso distorto di strumenti giuridici, (iv) la scelta operata dal contribuente può ben essere determinata dall'obiettivo di conseguire un risparmio d'imposta.

3. Il lease back nel diritto penale fra libertà contrattuale e sostanza economica.

Ricostruita nei termini anzidetti la legittimità, sia con riferimento al diritto civile che tributario, della figura del lease back, rimane da verificare se tale negozio giuridico presenti profili di contrasto con il diritto penale. In particolare, occorre valutare se il ricorso a questa fattispecie contrattuale – dalla cui stipula potrebbe conseguire una compressione della possibilità satisfattoria della pretesa tributaria – integri eventualmente il delitto di “sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte” di cui al primo comma dell’art. 11 del d.lgs. 74/2000, che punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni “chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”.

La ratio della norma incriminatrice è quella di tutelare la pretesa tributaria nei confronti del debitore e del suo patrimonio, garantendo in tal guisa il corretto funzionamento della procedura di riscossione coattiva in relazione al diritto di credito dell'erario[26]. Come affermato dalla Corte di Cassazione[27], l’oggetto giuridico del reato in esame non è tanto il diritto di credito dell'Erario, quanto la garanzia generica data dai beni dell'obbligato all’Erario stesso.

A dispetto della presenza nella norma della parola “chiunque”, il reato in discorso è reato proprio, poiché i potenziali soggetti attivi possono essere esclusivamente coloro i quali siano già qualificati come debitori d'imposta. Emerge di conseguenza in prima battuta una criticità di fondo: la norma parrebbe infatti descrivere proprio un’ipotesi di abuso del diritto penalmente rilevante secondo i caratteri che a tale figura di illecito sono stati attribuiti dall’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale[28]. In tale fattispecie, infatti, la condotta materiale del singolo non presenta alcun profilo di illiceità in re ipsa, e la responsabilità penale viene subordinata alla prova di una simulazione o fraudolenza dell’atto dispositivo. Alla luce di questa considerazione, risulta evidente la necessità di indirizzare lo studio del dettato normativo verso l’individuazione delle condizioni e dei presupposti in presenza delle quali comportamenti del singolo proprietario, altrimenti lecite, assumono rilievo penale.

Sotto questo profilo, peraltro, la norma in analisi presenta criticità sia in relazione all’elemento soggettivo che all’elemento oggettivo. In proposito, pare opportuno operare un confronto fra l’attuale formulazione e la previgente disciplina ante riforma del 2000, di cui all’art. 97 del DPR 602/1973, per meglio comprendere le intenzioni del legislatore della riforma e individuare sicuri appigli esegetici.

In particolare, la riforma ha anticipato significativamente la tutela penale del bene giuridico: se prima infatti l’addebito penale poteva venir mosso solo dopo l’avvio di accessi, ispezioni e verifiche oppure dopo la notifica di avvisi di accertamento o atti equipollenti, ad oggi il novellato art. 11 richiede soltanto la preesistenza di un debito erariale che viene compresso dall’atto dispositivo simulato o fraudolento. Tale anticipazione si era resa necessaria poiché la previgente formulazione determinava una sostanziale impossibilità di applicazione della norma, a causa della elevata complessità della stessa ed in conseguenza del necessario infruttuoso preventivo esperimento dell’azione di riscossione.[29] Ad oggi la norma si configura dunque come di pericolo concreto, e tutela la pretesa dell’Amministrazione Finanziaria in tutte quelle situazioni in cui si sia perfezionata la fattispecie impositiva, tramite la compiuta realizzazione del fatto indice di capacità contributiva, ed in cui sia quindi sorto il conseguente dovere di adempiere il corrispondente obbligo[30].

Tuttavia, tale considerazione mal si concilia con la prevista soglia di evasione di € 50.000 al di sotto della quale la condotta distrattiva non è punibile, in quanto il legislatore ha a tal fine fatto specifico riferimento, per il suo calcolo, ad “imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte”. Ciò parrebbe attribuire rilievo ad una attività dell’Amministrazione Finanziaria, non permettendo pertanto al contribuente di prefigurarsi l’ammontare della pretesa nel momento in cui quest’ultima non sia ancora stata formalizzata[31], con buona pace dei principi costituzionali di certezza e prevedibilità del diritto, a maggior ragione, penale.

Seguitamente, tale previsione ha generato numerose incertezze sotto il profilo dell’elemento soggettivo, data l’evidente difficoltà di tale accertamento, soprattutto nei casi in cui l’evasione non è di molto superiore alla predetta soglia. La più avveduta dottrina ha infatti rilevato come il legislatore avrebbe dovuto limitare il riferimento alla sola imposta, unico elemento davvero conoscibile dal contribuente con sufficiente certezza al momento della realizzazione del presupposto, conformemente a quanto si rinviene in numerose disposizioni fiscali[32].

D’altro canto, guardando all' elemento oggettivo del reato, la norma presenta altrettanti interrogativi. La norma sanziona infatti tutte quelle condotte consistenti nell’alienazione simulata o nel compimento di atti fraudolenti su beni propri o altrui. Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza, si ha violazione della norma ogniqualvolta vi sia “una diminuzione, anche non totale, della garanzia patrimoniale generica offerta dal patrimonio del debitore fiscale”[33]. È evidente allora come moltissime fattispecie contrattuali, la cui liceità civilistica è indubbia, possono rappresentare violazioni di tale precetto, soprattutto in conseguenza del fatto che la responsabilità penale parrebbe sussistere non solo quando la garanzia patrimoniale costituita dal patrimonio del debitore viene ridotta, ma anche quando la pretesa dell’Amministrazione Finanziaria venga compressa in seguito ad un atto dispositivo che rende la riscossione anche solo “frustrata”[34] ovvero più difficoltosa. Ai fini di questo breve elaborato, l’analisi si concentra sulla figura del lease back[35] - la quale riduce sempre la garanzia patrimoniale del debitore/contribuente tramite la fuoriuscita negoziale di un bene dal suo patrimonio - e pertanto l'analisi può essere circoscritta alle sole condotte fraudolente, risultando meno problematica l’individuazione di una simulazione rispetto all’accertamento imposto per valutare la fraudolenza di un atto perfettamente valido e lecito a livello civile.

La definizione di “atti fraudolenti”, non potendo trovare sufficienti indicazioni nel dettato normativo, è stata faticosamente ricercata dalla giurisprudenza, la quale tuttavia non è stata in grado di individuare precisi confini definitori. Infatti, la Suprema Corte ha spesso fatto riferimento a formule tautologiche ed incomplete che hanno determinato un allargamento pretorio dell’ambito operativo della fattispecie, ritenuto a ragion veduta dalla dottrina maggioritaria in contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale[36]. In particolare, gli Ermellini ricercano nell’atto dispositivo un “artificio od inganno”[37], attribuendo massimo rilievo al fine della condotta ed alla funzionalità dell' atto in relazione alla sottrazione[38]; peraltro, parrebbe rinvenirsi nei pronunciamenti della Suprema Corte una immotivata correlazione tra finalità abusiva e sottrazione fraudolenta, in chiaro contrasto con la giurisprudenza maggioritaria in materia di abuso del diritto che esclude la rilevanza penale delle condotte finalizzate unicamente ad ottenere un risparmio d'imposta.

Sostanzialmente, la Corte di Cassazione richiede, per l’individuazione del dolo, una valutazione ex ante calibrata sulla situazione concreta e sulla presunta conoscenza della propria situazione debitoria da parte del contribuente[39] che esclude rilevanza alla verifica ex post in merito all’effettivo verificarsi del danno alle ragioni dell’Erario.

In questo contesto si inserita un importante pronuncia della Corte di Cassazione che apre a scenari inediti e con risvolti, a modesta opinione dello scrivente, pericolosamente limitativi dell'autonomia contrattuale dei contribuenti. La sentenza 30615/2020, richiamando la sua costante giurisprudenza, sottolinea ulteriormente l'importanza del profilo oggettivo della condotta: secondo la Corte, “la fraudolenza deve qualificare l’atto sul piano oggettivo, senza che sia necessario attingere a fatti o comportamenti ad esso estrinseci per escluderne la natura. Inoltre, poiché la fraudolenza qualifica l’atto sul piano oggettivo, essa preesiste al dolo specifico dell’azione e non ne può essere contaminato a fini qualificatori; il fine di sottrazione qualifica il dolo specifico non la natura fraudolenta dell’atto mediante il quale l’agente persegue lo scopo, sicché non è corretto qualificare la natura fraudolenta dell’atto in considerazione (e a causa) dello scopo perseguito dal suo autore. I piani devono rimanere distinti se si vuole evitare che il disvalore dall’azione si tramuti in disvalore della volontà e, soprattutto, se si vuole evitare l’allargamento della fattispecie a condotte non tipiche.”

Tale pronuncia, oltre a porsi in contrasto con alcuni precedenti in tema[40], apre ad una serie indefinita di interrogativi, la cui mole impone un ulteriore intervento chiarificatore della Suprema Corte. In primo luogo, la svalutazione dell'elemento soggettivo comprime inevitabilmente l’utilizzabilità di eventuali elementi probatori atti a dimostrare l'assenza di dolo, a discapito di tutte quelle fattispecie negoziali, fra le quali spicca il lease back, astrattamente fraudolente ma di grandissima applicazione ed utilità. Portato alle estreme conseguenze, il lease back non assumerebbe rilevanza in relazione al divieto di abuso del diritto, ma integrerebbe nella maggior parte dei casi la fattispecie di cui all’art. 11 d.lgs. 74/2000, escludendo la responsabilità penale solo nei casi in cui l’assenza di dolo è cartolarmente inconfutabile.

Tale orientamento, supportato solo dal principio della prossimità della prova penale e dalla necessità di rendere più agevole la contestazione del reato, presenta, ad oggi, evidentissime frizioni con la presunzione costituzionale di non colpevolezza e con il principio di determinatezza della fattispecie penale. In particolare, si necessità di un ulteriore intervento della Corte che, enucleando in maniera positiva o negativa dei criteri che possano escludere o far presumere la responsabilità penale, permetta ai contribuenti di utilizzare il lease back, o comunque tutte le fattispecie negoziale ad esso equiparabili, senza il timore di poter ricevere una contestazione penale.

Specifica questione che assume massimo rilievo alla luce delle precedenti considerazioni è quella inerente alla comparazione fra il valore del bene a vario titolo fuoriuscito dal patrimonio del contribuente e la sottrazione contestata. In questo senso, si possono delineare due orientamenti della Cassazione: l’uno, già richiamato[41], che attribuisce rilievo penale a tutti gli atti dispositivi che rendono più difficoltosa la riscossione coattiva, ed un altro[42], che invece esclude il reato laddove i beni fatti uscire, ancorché fraudolentemente, dal patrimonio del contribuente siano solo una parte di esso e pertanto residuino in esso attivi di valore non inferiore al presunto debito fiscale, in particolare in un momento successivo alla solidificazione della pretesa tributaria. Parrebbe, a modesto parere dello scrivente, che sia molto difficile sostenere il dolo della condotta anche quando la pretesa tributaria sia inferiore alla capienza del patrimonio del contribuente decurtata del bene ceduto in lease back. Alla luce di questa semplice considerazione, risulta evidente la necessità che la Suprema Corte si premuri di elaborare ulteriori criteri che permettano al contribuente di disporre del proprio patrimonio, in ossequio alla libertà di scelta proclamata con riferimento all’abuso del diritto nel lease back, senza che la necessità satisfattoria dell’Amministrazione Finanziaria comprima immotivatamente l’autonomia negoziale dei disponenti-contribuenti. La natura di pericolo della norma non esclude a priori una valutazione di tal fatta: richiamando infatti la differenza dottrinaria fra pericolo concreto ed astratto, non può attribuirsi rilevanza penale a condotte dispositive che, alla luce della comparazione fra valore del bene ed ammontare del debito erariale, non comprimano la pretesa satisfattoria ma semplicemente l’indirizzino, ancorché il contribuente con la sua condotta integri gli elementi costitutivi del reato. Il legislatore richiede che il contribuente sia a conoscenza del superamento della soglia di cui all’art. 11 c.1 d.lgs. 74/2000, e non vi sono ragioni per le quali la conoscenza della quantificazione del proprio debito non possa escludere rilevanza penale agli atti dispositivi che, in ultima analisi, non presentano patologie né per l’ordinamento civile né per quello tributario.


Dott. Vincenzo Santoriello



[1] Infatti, come ricorda Kenneth L. Stewart in Taxation of Sale and Leaseback Transactions - A General Review,

32 Vanderbilt Law Review 945(1979): “Since the sale and leaseback transaction gained prominence in the 1940's, its financial and tax repercussions have been the subjectof much discussion among legal scholars” 2 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2019, pg. 1319.


[2] C. Chessa, Sale and lease back: qualificazione dell’operazione e interferenze con il divieto di patto commissorio, in Giur. comm., 1994, p. 673.


[3] Sez. I civ., sent. 6 luglio 2017, n. 16646, Pres. Spirito, Est. Scarano


[4] Sez. I civ., sent. 15 aprile 1998, n. 4095, Pres. Corda, Est. Marziale.


[5] G. Oberto, Vendita con patto di riscatto, divieto del patto commissorio e contratto di lease back, in

 Quadrimestre, 1984, pp. 198


[6] v. delibera Se.C.I.T. n. 80 del 22 Novembre 1988.


[7] Cass. Civ., sez. III, sentenza 21.07.2004 n. 13580


[8] Cass. Civ., Sentenze n. 10805 del 1995, n. 11276 del 1995, n. 944 del 1997 e n. 4612 del 1998.


[9] In tal senso anche la successiva Circolare Ministeriale n. 238 del 30 Novembre 2000


[10] G. Rispoli, Lease back: chiaroscuri applicativi fra funzione di finanziamento e di garanzia, in Giurisprudenza Italiana, Marzo 2012, pg. 575-580.


[11] v. da ultimo Sez. III civ., sent. 17 gennaio 2020, n. 84, Pres. Armano, Est. Cricenti.


[12] Cass. Civ., Sez. I, 28.01.2015, n. 1625.


[13] Il principio del divieto di abuso del diritto è tutto di matrice giurisprudenziale, ed ha trovato riconoscimento normativo in un primo momento nell’ art. 37 bis del DPR 600/73, e successivamente, grazie alla modifica operata dal d.lgs. 128/2015, nell’ art. 10 bis della l. 212/2000.

Sul punto, senza pretesa di completezza, AA.VV. (a cura di Miele), Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici, Torino, 2016; Gallo, La nuova frontiera dell'abuso del diritto in materia fiscale, Rass. trib., 2015, p. 1315.


[14] Il leasing operativo è un contratto mediante il quale il locatore, contro pagamento di un canone periodico, concede in locazione al conduttore (cliente e utilizzatore del cespite), senza che questo ne divenga proprietario, beni strumentali aventi caratteristiche standardizzate, unitamente ad una serie di servizi collaterali. Figura attigua al leasing finanziario utilizzato nel lease back, differiscono prima facie per la causa contrattuale.


[15] “Pertanto, la plusvalenza concorre integralmente alla formazione del reddito imponibile nell’esercizio in cui è realizzata ovvero, qualora ricorrano i presupposti previsti dalla legge, in quote costanti nell’esercizio stesso e nei successivi ma non oltre il quarto” dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, n. 237/E/2009. 17 G. M. Committeri, Sale and lease back senza più penalizzazioni fiscali per i soggetti non IAS adopter, in La gestione straordinaria delle imprese, 2/2017.


[16] Cass. Civ., sez. III, sent. 23.08.2016, n. 35294.


[17] Cfr. art. 13-bis del decreto “Milleproroghe” (d.l. 244/2016),


[18] In questo senso v. CTP Modena, II sezione, sent. 12 gennaio 2011, n.5 oppure Cass. Civ., II sez., sent.

23.08.2016, n. 35294.


[19] Cass. Civ., sez. V, sent. 05.12.2014, n. 25758.


[20] Cass. Civ., sez. V, sent. 26.08.2015, n. 17175.


[21] M. Beghin, L’abuso del diritto e le operazioni infragruppo del caleidoscopio della Suprema Corte, in Riv. dir. trib., 2009, 2, pg. 638.


[22] Cass. Civ., sez. V, sent. 8 aprile 2009, n. 8481, in Mass. Uff. n. 607731.


[23] A. Manzitti, M. Fanni, Abuso ed elusione nell’attuazione della delega fiscale: un appello prevalgano le ragioni ed il diritto, in Corr. trib., 15, 2014, pg. 1141.


[24] Cass. civ. Sez. V-T., Sent., 5-12-2014, n. 25758.


[25] Si richiama in proposito l’art. 10 bis, c. 4 della l. 212/2000, che codifica il principio secondo cui “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”


[26] F.Antolisei, Manuale di diritto penale, Milano, 2014, pag. 368.


[27] Cass. Pen., III sez., sent. 06 ottobre 2011, n. 36290 in Massimario.it - 37/2011


[28] C. Santoriello, Abuso del diritto e conseguenze penali, Eutekne, 2018, pg.522.


[29] L. Trombella, Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario, a cura di Giovannini, Marzaduri e Di Martino, Milano, 2016, I, pg. 821 ss.


[30] S. Dorigo, I nuovi confini giurisprudenziali del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, in Giur. Pen., 2017, 7-8, pg. 3.


[31] S. Dorigo, ibidem, cit.


[32] A. Perini, Reati tributari, in Digesto delle discipline penalistiche. Aggiornamento, Torino, 2015, p. 477 ss.


[33] Cass. Pen., III sez. 3, sent. 16 dicembre 2015, n. 6798.


[34] F. Arfito- E. Musco, Diritto penale tributario, Bologna, 2017, pagg. 304 e ss.


[35] Tuttavia sono molte le figure che si prestano a tali riflessioni, primo fra tutti il trust. v. Cass. Pen., sez. III, sent. 02.03.2018, n.29636.


[36] S. Dorigo, cit., in Giur. Pen., 2017, 7-8, pg. 6


[37] Cass. Pen., sez. III, sent. 15 aprile 2015, n. 15449.


[38] Cass. Pen., sez. III, sent. 09.09.2015, n. 36378.


[39] Ancora la predetta Cass. Pen., sez. III, sent. 09.09.2015, n. 36378.


[40] Cass. Pnen. III sez., 22 aprile 2015, n. 27143.


[41] Cass. Pen., III sez., sent. 16 dicembre 2015, n. 6798.


[42] Cass. Pen., IV sez., sent. 24 febbraio 2015, n. 13878.