Lesione del diritto al corretto trattamento dei dati personali e identità genitoriale

Fattispecie concreta

Con la sentenza 05/05/2020, n. 8459 (1), la Corte di Cassazione sancisce la negazione del diritto in capo alla madre di non comunicare lo stato di gravidanza al padre ma, anzi, in difetto, sorge la responsabilità civile al risarcimento del danno in capo alla madre in favore dell’altro genitore tenuto all’oscuro della circostanza. Altresì, si sofferma in merito al tema della disciplina del trattamento dei dati personali dal momento che, in sede di accertamento della paternità, i campioni biologici del presunto padre erano stati acquisiti in violazione della normativa della legge sulla Privacy (D.Lgs. n. 19672003) nonché dell’art. 13 Cost e dell’art. 8 CEDU.

Il fatto affrontato

Il caso sottoposto ai giudici di legittimità, è interessante per l’esamina del duplice aspetto di diritto che attiene, in prima istanza, al diritto fatto valere dall’erede, costituitosi in giustizio in virtù del diritto iure successionis, del defunto padre, deceduto nelle more del giudizio, in merito al “doloso occultamento” da parte della madre “della procreazione con conseguente ingiusta privazione per il padre del rapporto di filiazione” non consentendo quindi, al padre naturale, di esercitare il suo diritto alla paternità e ad affermare la propria identità genitoriale (escludendo un danno da perdita di chance, in capo al padre, inteso come mera possibilità di conseguire un risultato utile ovvero una definitiva perdita di un risultato a cui si ambiva) ed in secondo, ma non meno importante, aspetto, l’analisi approfondita in merito alla tutela della privacy derivante dall’indagine di ricerca ed accertamento della genitorialità mediante le prove biologiche ricavate da vetrini, custodite dall’Azienda ospedaliera illecitamente acquisite. Il tribunale accoglie la domanda del figlio naturale mentre la sentenza è appellata dall’erede; la Corte d’Appello dichiara inammissibili i motivi di gravame, confermando la decisione di primo grado. Il ricorrente, in Cassazione, ripropone le eccezioni di nullità ritenute inammissibili dal giudice di appello, in particolare, affermando l’inutilizzabilità dei dati genetici ricavati illegittimamente perché in violazione della normativa della legge sulla Privacy (D.Lgs. n. 196/2003), dalla falsa applicazione degli artt. 11 e 16 del Codice della Privacy (successivamente abrogato dal D.Lgs. 10 agosto 2018 n. 101) e dalla violazione dell’art. 13 Cost. e dell’art. 8 CEDU.

Secondo il ricorrente, altresì, le prove illecitamente acquisite, sarebbero state assunte nel processo anche in violazione delle norme penali ex art. 191 c.p.


La sentenza

La Cassazione, afferma preliminarmente che “l’omessa comunicazione all’altro genitore, da parte della madre, consapevole della paternità, dell’avvenuto concepimento di un figlio si traduce, ove non giustificata da un oggettivo apprezzabile interesse del nascituro e nonostante tale comunicazione non sia imposta da alcuna norma, in una condotta “non iure” che, se posta in essere con dolo o colpa, può integrare gli estremi di una responsabilità civile ai sensi dell’art. 2043 c.c. poiché suscettibile di arrecare un pregiudizio, qualificabile come danno ingiusto, al diritto del padre naturale di affermare la propria identità genitoriale, ossia di ristabilire la verità inerente il rapporto di filiazione”.

Inoltre, sotto il profilo della tutela della privacy, la Corte di legittimità enuncia, nel caso specifico, che la corte territoriale ha ben operato perché si è conformata al principio enunciato dalla stessa Corte, Sezioni Unite, del 08/02/2011, n. 3034 secondo cui, in tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 193 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all’autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benché anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy.

Secondo la Corte, l’assunto difensivo secondo cui il CTU non avrebbe potuto acquisire presso le Aziende ospedaliere i vetrini con i campioni biologici (relativi a “washing bronchiale” ed a “agoaspirato polmonare”) in quanto i “dati personali”, alla data di cessazione del trattamento, avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere “ceduti” dalle strutture sanitarie è destituito totalmente di fondamento.

La Corte ricorda che anche la “conservazione” del dato personale rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell’ente pubblico, laddove queste prevedano, forme obbligatorie Coex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguenti di interessi pubblici prevalenti.

L’ipotesi di una “distruzione” automatica dei dati personali al momento della dimissione del paziente o al decesso di questo, trova quindi espresso limite nella stessa legge di protezione dei dati personali, laddove la “conservazione” del dato risulti funzionale all’accesso alla giustizia, come emerge chiaramente anche dalla disciplina introdotta dal regolamento UE n. 679/2016 che limita “il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo” (art. 17 reg. UE), “nella misura in cui il trattamento sia necessario […] e) per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria“, e che reciprocamente limita l’obbligo del titolare del trattamento di procedere immediatamente, ove non più necessari, alla eliminazione dei dati personali, rimettendo all’interessato il potere di richiedere la prosecuzione del trattamento, nella forma della conservazione, quando i dati risultino indispensabili allo stesso interessato “per l’accertamento, l’esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 18, paragr. 1, lett. c), reg. UE cit.). (2)

 

Problematiche

Il tema della privacy è stato di recente modificato con l’intervento del Regolamento UE 2016/679 , cd. “RGDP” (ben più noto nel lessico inglese come General Data Protection Regulation o “GDPR”), ora contenuto in quello che era, nell’ordinamento domestico, il codice della privacy del 1996.

Il termine privacy copre un’area semantica molto vasta ed il Regolamento ha come finalità il trattamento dei dati personali e non tanto la privacy in sé considerata. Infatti, la differenza tra i due è che la privacy è una categoria morale che riguarda i fatti che si vogliono portare a conoscenza, riferita anche ad altre persone, ed è molto affine all’idea di pudore (3). Il GDPR, invece, si occupa dei dati personali (direttamente o indirettamente riferiti ad un singolo individuo) e del loro corretto utilizzo. Pertanto, la legge sul trattamento dei dati personali, si applica non tanto ai fini personali ma principalmente (e non solo) a scopo di pubblicità e di marketing.

La legge domestica precedente prevedeva una serie di categorie definite “dati sensibili” (tra cui le credenze generali, i dati corporei e le abitudini sessuali) mentre, con il GDPR, questa distinzione non c’è più; il nuovo Regolamento prende atto che la sensibilità del dato non dipende da questo in sé per sé considerato ma dal contesto in cui esso è inserito. Inoltre, la digitalizzazione, nonostante permetta di raccogliere una quantità considerevole di dati, include problemi in ordine alla gestione ed al trattamento che, se non adeguatamente amministrato, consente di carpire, ad opera di terzi, informazioni personali anche in modo illecito.

La sentenza, qui di nostro interesse, la n.8459/2020, in particolare, attiene al caso di accertamento della paternità attraverso il test del DNA, test al quale il soggetto non si era sottoposto volontariamente, ma il suo dato personale era stato estrapolato altrove mediante dei vetrini contenenti il materiale biologico custoditi presso l’azienda ospedaliera; per questo motivo, viene eccepita una lesione della privacy dall’erede, titolare del diritto iure successionis e, di conseguenza, del dato personale del de cuius.

Il punto centrale, in questo caso, è costituito dal fatto che, nel giudizio di accertamento della paternità, il soggetto chiamato come presunto padre, non si era sottoposto alla prova delle informazioni genetiche, ma il CTU era riuscito comunque ad ottenere, dagli ospedali dove il presunto padre era stato ricoverato, dei campioni biologici conservati e da cui era possibile estrapolarlo ai fini probatori e processuali.

Per questo motivo, l’erede ricorrente, lamenta l’illecita acquisizione e disponibilità dei dati personali, in violazione dell’allora vigente D.Lgs. 196/2003, ora abrogato dal D.Lgs. 101/2018 e dal Reg. UE 2016/679.

V’è da subito la necessità di porre l’accento sul fatto che, è sì possibile raccogliere i dati e trattarli così come indicato nel GDPR; tuttavia, qualora si verifichi un trattamento che viene definito “data-breach”, inteso come “una violazione di sicurezza che comporta -accidentalmente o in modo illecito- la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati ovvero una violazione dei dati personali che può compromettere altresì la riservatezza, l’integrità o la disponibilità di dati personali”(4), ossia quando vi è una violazione della disciplina, questo cagiona sicuramente una responsabilità, con la conseguenza che viene in considerazione non tanto la violazione della norma processuale sull'acquisizione della prova, ma “a monte” la condotta illecita per violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo a coincidere la vittima dell'illecito civile -che ha subito la lesione del "jus arcendi" sulla informazione identificativa-, con la stessa parte processuale contro la quale tale informazione viene fatta valere quale fonte di prova, non potendo, quindi, trasformarsi in lecita -attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo- la condotta illecita relativa alla divulgazione e comunicazione del dato che non poteva essere acquisito o raccolto, atteso che, l'utilizzo probatorio del dato integrerebbe proprio quel pregiudizio che la norma di divieto intende impedire a tutela del diritto dello stesso soggetto cui la legge intende apprestare la protezione.

Qui, si tratta della possibilità di utilizzare come mezzo di prova un dato che è stato assunto o acquisito in violazione di un principio fondamentale che è riferito alla tutela del dato personale. Il ricorrente aveva dunque eccepito che la prova era stata acquisita illecitamente perché non faceva parte dei modi di acquisizione così disciplinati; la CdA aveva respinto questa eccezione sostenendo che, il principio dell’illecita acquisizione della prova, tale per cui quella prova non può essere utilizzata nel giudizio, è un principio che appartiene solo al processo penale e non anche a quello civile stente la diversa rilevanza degli interessi che vengono in questione nel giudizio penale (status liberatis) ed in quello civile, nel quale il Giudice non incontra i limiti della tipicità del mezzo probatorio (Corte Cass. Sez. L. sent. m. 28974/2027, e Sez. 5, sent. n. 8206/2015).

Nel giudizio civile, infatti, le prove atipiche sono comunque utilizzabili dipendendo la loro rilevanza esclusivamente in relazione alla maggiore o minore efficacia probatoria ad esse riconosciuta dal Giudice di merito, non sussistendo, né potendo essere censurato in cassazione - alcun vizio invalidante la formazione della prova atipica salvo che il mezzo di prova costituisca ex se - per il suo modo di essere - lesione di un diritto fondamentale della persona.

Il principio che stabilisce la estraneità dalle fonti di prova - anche atipiche - di quelle acquisite con modalità da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite, quali la libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del domicilio, è stato ripetutamente affermato dalla stessa Corte. Ed è anche vero che la violazione delle operazioni individuate dall'art. 4, par. 1, n. 1, del Regolamento UE 2016/679, si traduce nell’illecita acquisizione, ai fini probatori, di informazioni identificative della qualità di una persona fisica che costituiscono oggetto del diritto assoluto alla protezione dei dati personali, ricompreso tra le libertà fondamentali della persona.

Tuttavia è la stessa legge che ne definisce i limiti, attribuendo prevalenza, rispetto ai diritti dell'interessato, al trattamento dei dati personali se eseguito per ragioni di giustizia, precisando che il divieto di "trattare dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona", non si applica nei casi in cui il trattamento si renda necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali (Regolamento UE art. 9, par. 1 e 2, lett. f).

La stessa Corte a sezioni unite (Cass. Civ. n. 3034/2011) ha precisato che non costituisce violazione della legge l’utilizzo dei dati personali, quando questi siano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo.

La conservazione del materiale biologico da parte della struttura sanitaria pubblica, rientra nelle operazioni di trattamento e può trovare giustificazione nel fine istituzionale dell'ente pubblico, che ha obblighi di archiviazione dei dati per il perseguimento di interessi pubblici prevalenti, tra i quali rientra l'impiego del campione biologico in un giudizio.

Nello specifico, il CTU, quale ausiliario nominato dal Giudice, era legittimamente autorizzato e in adempimento alle prescrizioni del provvedimento di conferimento dell'incarico, ad acquisire informazioni presso terzi ex art. 194 c.p.c. (5).

Dunque, il diritto alla privacy ed al corretto trattamento dei dati personali è un diritto fondamentale della persona, che, però, sia nella disciplina del codice della privacy e sia nella disciplina attuale, come consegue all’introduzione del regolamento del GDPR, vede come eccezione proprio l’utilizzo del dato all’interno di un procedimento per difendere un diritto.

Infine, il soggetto ricorrente, che aveva chiesto l’accertamento della paternità, così come riporta la Corte nelle sue motivazioni, si duole del rigetto della domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento del danno formulata “iure hereditatis” e fondata sull’illecito occultamento della esistenza di un figlio; condotta, secondo il ricorrente, da imputarsi in concorso allo stesso figlio naturale ed alla madre e che avrebbe pregiudicato il diritto alla genitorialità del padre naturale, impedendogli di instaurare un rapporto educativo ed affettivo con la prole.

La richiesta di risarcimento avanzata per il fatto che al padre fosse stato a lui taciuto di avere un figlio, compromettendo il suo diritto alla genitorialità era, come sottolinea la Corte, fondata sul fatto che la “esigenza” della conoscenza, da parte del soggetto che ha partecipato al concepimento, che la gravidanza è a lui riferibile, gli avrebbe consentito l’esercizio del diritto (-dovere) di riconoscimento del figlio naturale ex artt. 250 e 254 c.c.. con la conseguente assunzione delle responsabilità genitoriali verso il nato. Così impostata, si potrebbe qualificare come illecita la condotta omissiva della donna, in quanto lesiva del “diritto alla autodeterminazione” dell’altro soggetto (padre naturale) congiuntamente alla lettura del combinato disposto degli artt. 2 e 30 Cost. in tema di “diritto alla identità personale” esplicandosi anche attraverso la filiazione, sotto il profilo della trasmissione del proprio patrimonio genetico, sia sotto l’aspetto maggiormente qualificante come la scelta, volontariamente assunta dal genitore, di dedicare il proprio impegno e ad instaurare un rapporto affettivo con la persona generata.

Ma tale principio si distingue dalla richiesta di risarcimento per il “non aver potuto avere un padre” ovvero per la lesione del rapporto parentale come forma di illecito endofamiliare. In riferimento a quest’ultimo, la Corte nega questa tipologia risarcitoria del danno perché, nel comportamento processuale del padre, si era evinto che lo stesso non avesse alcun tipo di interesse nel farsi riconoscere la paternità e che aveva sempre ostinatamente negato qualsiasi possibilità di un suo coinvolgimento, avendo costantemente negato di avere avuto rapporti intimi. A tal proposito, la condotta omissiva della donna gravida, non si iscrive, infatti, nella violazione di obblighi derivanti da un rapporto giuridico precostituito tra le parti. Infatti, non vengono in questione i doveri tra coniugi, che trovano giuridica definizione nell’art. 143 c.c., comma 2, o tra conviventi “more uxorio”, né tanto meno vengono in questione gli obblighi derivanti dalla assunzione di responsabilità di ciascun genitore nei confronti del figlio nato in costanza di matrimonio. Nella fattispecie, lo stato di gravidanza è stato determinato dal concepimento con altra persona, ingannando il padre non biologico in merito alla paternità, instaurando tra essi un rapporto di filiazione basato sulla menzogna.

Dunque, la domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente, inquadrata nello schema dell’illecito extracontrattuale, si palesava carente di supporto allegatorio ed in oltre difettava della prova della elevata probabilità di esistenza della occasione perduta.

La Corte, dunque, precisa che, avendo avuto riguardo a tale incertezze e alle lacune allegatorie nella descrizione dei fatti rilevanti, la mera asserzione di aver dovuto a rinunciare a godere della relazione con il padre biologico a causa del comportamento illecito della madre, si risolve tautologicamente nel mero vanto del diritto al risarcimento del danno che fonda la condizione di ammissibilità dell’azione ma non assolve alla prova dei fatti costitutivi. Ergo, per poter essere il riconosciuto il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., questo si deve sostanziare nel fatto che a) l’interesse leso - e non il pregiudizio sofferto - abbia rilevanza costituzionale; b) che la lesione dell’interesse sia grave, nel senso che l’offesa superi una soglia minima di tollerabilità; c) che il danno non sia futile, vale a dire che non consta in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.

Pertanto, come rilevano i supremi giudici di legittimità, il ricorso, così presentato e ab origine impostato per i Giudici di merito, è ritenuto infondato stante il difetto del fatto storico in sede d’Appello oltre alla mancata allegazione degli indizi idonei a consentire il riconoscimento di una effettiva perdita di occasione.

Soluzione

Il trattamento dei dati personali e, dunque, il diritto alla protezione dei dati stessi, presenta due facce della stessa medaglia: non è un diritto assoluto, da un lato, ma va applicato tenendo conto degli altri diritti in gioco; dall’altro lato si presenta, invece, come diritto assoluto quando, dalla sua violazione, vengono lese le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite (libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del domicilio), traducendosi nell’illecita acquisizione di informazioni identificative della qualità di una persona fisica. Dette violazioni si riscontrano normativamente dal Regolamento UE 2016/679 e le limitazioni all’esercizio di tale diritto si individuando ex art. 8 della Convezione dei diritti dell’uomo la quale stabilisce che “non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla protezione die diritti e delle libertà altrui”.

Il diritto di difesa dunque, cioè la facoltà di un cittadino di tutelare i propri diritti dinanzi all’autorità giudiziaria, costituisce una limitazione al diritto alla protezione dei dati personali.

Infatti, l’articolo 21 del Regolamento europeo (GDPR) esclude il diritto di opposizione dell’interessato nel momento in cui il trattamento dei dati avvenga per l’esercizio di un diritto in sede giudiziaria. Nel qual caso, inoltre, non è previsto nemmeno il consenso né l’informazione all’interessato, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario all’esercizio del diritto.

Altresì, l'art. 23 del GDPR inserisce espressamente tra le limitazioni alla tutela dei dati personali anche “la prevenzione, l'indagine, l'accertamento e il perseguimento di reati o l'esecuzione di sanzioni penali”, “la salvaguardia dell'indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari”, “le attività volte a prevenire, indagare, accertare e perseguire violazioni della deontologia delle professioni regolamentate”, e “la tutela dell'interessato o dei diritti e delle libertà altrui”, oltre all''esecuzione delle azioni civili.

L'art. 2 duodecies del Codice Privacy novellato, stabilisce che "in applicazione dell’articolo 23, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento, in relazione ai trattamenti di dati personali effettuati per ragioni di giustizia nell’ambito di procedimenti dinanzi agli uffici giudiziari di ogni ordine e grado nonché dinanzi al Consiglio superiore della magistratura e agli altri organi di autogoverno delle magistrature speciali o presso il Ministero della giustizia, i diritti e gli obblighi di cui agli articoli da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di Regolamento che regolano tali procedimenti, nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 23, paragrafo 2, del Regolamento. Fermo quanto previsto dal comma 1, l’esercizio dei diritti e l’adempimento degli obblighi di cui agli articoli da 12 a 22 e 34 del Regolamento possono, in ogni caso, essere ritardati, limitati o esclusi, con comunicazione motivata e resa senza ritardo all’interessato, a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione, nella misura e per il tempo in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti fondamentali e dei legittimi interessi dell’interessato, per salvaguardare l’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari. Si applica l’articolo 2-undecies, comma 3, terzo, quarto e quinto periodo”.

Sempre l'art. 2 duodecies definisce i trattamenti per ragioni di giustizia quelli "correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie, i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi o strutture, quando non e’ pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti". Nell'ambito giudiziario il trattamento trova nel Ministero e nei singoli uffici giudiziari i rispettivi titolari del trattamento, con riferimento alle loro specifiche attribuzioni, e quindi il trattamento è lecito in quanto esercitato direttamente dallo Stato. Ciò giustifica la fissazione di deroghe rispetto al regime ordinario relativo al trattamento dei dati personali, attribuendo una prevalente rilevanza al diritto di agire e difendersi in giudizio, diritto costituzionalmente garantito (vedi Corte Cass. 15327/2009, 3358/2009, C. 12285/2008, C. 10690/2008, C. 8239/2003).

Secondo la Corte di Cassazione, è nell'ambito del processo che devono trovare composizione le diverse esigenze, cioè la tutela dei dati e la corretta esecuzione del processo, laddove le disposizioni che regolano il processo hanno natura speciale, e quindi sovraordinata, rispetto a quelle in materia di protezione dei dati personali (Cass. Civ. SS. UU. sentenza n. 3034 del 2011). E', inoltre, ammessa anche l'allegazione di dati cosiddetti sensibili (oggi ex art. 9 GDPR) senza il consenso, purché siano necessari per esercitare il diritto di difesa (Cass. n. 35296/2011).

Il valore della prova previsto e disciplinato dall'art. 160 bis del Codice Privacy novellato stabilisce che la "validità, l’efficacia e l’utilizzabilità nel procedimento giudiziario di atti, documenti e provvedimenti basati sul trattamento di dati personali non conforme a disposizioni di legge o di Regolamento restano disciplinate dalle pertinenti disposizioni processuali". Quindi, affinché una prova (documento o altro) sia comunque utilizzabile in sede giudiziaria, anche se in violazione delle norme in materia di protezione dei dati personali, occorre che la prova sia acquisita lecitamente, e cioè rispettando le regole che presiedono alla formazione della prova all'interno del processo. Per cui il dato deve essere trattato in modo lecito (cioè non contrario a norme imperative, all'ordine pubblico e al buon costume), secondo correttezza, compatibilmente a scopi determinati e legittimi, deve essere esatto, pertinente e non eccedente le finalità dell'esercizio del diritto di difesa. In caso contrario il dato è illecito e quindi inutilizzabile in sede giudiziaria (art. 191 CPP). (6)

Ma, nel caso di specie testé descritto, notiamo un’ulteriore evoluzione attinente alla valutazione della prova in sede civilistica: il Giudice di merito pondera discrezionalmente gli interessi in gioco corredati dai supremi fini di giustizia processuale, derogando tale disciplina stante la valutazione differente degli interessi in gioco rispetto alla sede penalistica in quanto, quest’ultima, attiene allo status libertatis e dunque è necessaria una tipizzazione probatoria.

Dunque, nonostante la possibilità, lecita ed in capo all’interessato di anonimizzazione, pseudonomizzazione e revoca dei propri dati, quelli attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute non sono così facilmente modificabili (ad eccezione per la modifica dei consensi circa le finalità del trattamento che è sempre opzionale e liberamente esercitabile) e la disponibilità degli stessi è facilmente accessibile agli organi giudiziari per il perseguimento degli interessi di giustizia dovendo quest’ultima ritenersi superiore a tale diritto dalla “doppia faccia”.

In merito, invece, alla configurazione dell’illecito endofamiliare, considerato come evoluzione dell’illecito esofamiliare nel contesto del diritto di famiglia, considerato come “un’isola soltanto lambita dal mare del diritto” (7) , tale fattispecie si ravvisa sotto il cappello del danno non patrimoniale il cui ingresso ufficiale come nuova fattispecie, nel nostro ordinamento, è segnato dalla sentenza C.Cass. n.9801/2005. Sono susseguiti diversi interventi da parte della Corte in sede di legittimità che hanno progressivamente precisato i presupposti di accertamento e i criteri di determinazione sulla quantificazione di questa che, ormai, è una nuova categoria di danno dai contorni più o meno definiti.

Ma se, dapprima, in tema di illecito familiare, era prevista solo l’ipotesi di addebito della separazione le cui conseguenze erano la perdita dei diritti successori e dell’assegno di mantenimento i cui presupporti di tale capitis deminutio erano la violazione, alternativamente o congiuntamente, dell’obbligo di fedeltà, assistenza morale e materiale e obbligo di coabitazione alla cui base vi era l’intollerabile convivenza, con l’emersione di situazioni drammatiche all’interno delle famiglie, ha portato la Suprema Corte a considerare l’introduzione di reati di maltrattamento, in ambito penalistico, e, in ambito civilistico, di abusi familiari, intervenendo in un rapporto ormai entrato in una fase patologica.

Non tutti gli illeciti sono configurabili nell’alveo del contesto di famiglia ma vi sono dei presupposti in ordine a tale fattispecie cui consegue il risarcimento del danno. Pertanto, ai fini risarcitori, ciò che conta per la configurabilità, è che il danno, accompagnato dalla violazione degli obblighi previsti ex art. 142 e 143 c.c., sia accompagnato dalla gravità e serietà - del danno - (Sentenze di San Martino) e che uno dei membri della famiglia leda uno dei diritti costituzionalmente garantiti dell’altro.

Nel caso di questioni che attengono ai rapporti genitori e figli, se un padre non solo si dimostra disinteressato della nascita di un figlio ma anche della sua crescita, i giudici sono inclini a riconoscere il danno hai figli da parte di genitori che risultino inadempienti ai doveri di educazione, agli obblighi di cura e valutano, come fonte di responsabilità, la lontananza dal punto di vista emotivo di un genitore che si limiti a contribuire al mantenimento del figlio solo sotto l’aspetto economico. Infatti, solo nel caso in cui un genitore riconosca un figlio, contribuisca al suo mantenimento ma poi se ne allontani (anche susseguentemente alla filiazione derivante da separazione) disinteressandosi della sua crescita a livello emotivo, può essere fonte di responsabilità per violazione dei diritti costituzionalmente garantiti in capo alla prole da cui nasce un diritto al risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. attinente alla violazione dell’obbligo di educazione e assistenza morale (oltre al danno patrimoniale dell’obbligo di mantenimento).

Inoltre, in ordine alla condotta illecita della madre che aveva taciuto al padre naturale la gravidanza, nonostante la riforma della filiazione e dell’unicità dello stato di figlio, si considera nato in costanza di matrimonio e per presunzione nasce l’attribuzione dello stato di padre al marito (non v’è la necessità di riconoscimento dato l’automatismo); mentre, per il figlio nato fuori dal matrimonio, è necessario un atto di riconoscimento da parte del padre naturale. Dunque, in ordine alla risarcibilità del danno in capo al padre, sussiste dal momento che gli è stata negata la possibilità di esercitare il suo diritto di autodeterminazione ed affermazione di identità, mentre sarà imputabile alla madre l’illecito derivante dalla sua condotta omissiva, lesiva dei diritti costituzionalmente previsti e di cui il figlio ne è protetto. Il “non aver avuto un padre”, invece, non prevede esso stesso un risarcimento del danno non patrimoniale dal momento che, pur essendo di fronte ad un  danno esistenziale (e non biologo di natura psichica) ben potendo essere liquidato secondo equità, nel caso di specie non è accompagnato dai due criteri fondamentali e sanciti dalla storica Sentenza San Martino in cui vige la duplicità attinente alla serietà del danno ed alla sua gravità.

Pertanto, il danno, per essere risarcibile, non deve configurarsi come “futile”, vale a dire che non consta in meri disagi o fastidi, ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari, come quello alla qualità della vita od alla felicità.


Valentina Minervini, laureanda presso l'Università degli Studi Milano - Bicocca

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(1) La sentenza in https://www.jusdicere.it/Ragionando/wp-content/uploads/2020/05/Cass-Civ-SezIII-05-05-2020-n-8459.pdf e http://images.go.wolterskluwer.com/Web/WoltersKluwer/

%7B5244b995-21d9-4659-9f68-87f6cbcc95cf%7D_cassazione-civile-sentenza-8459-2020.pdf

(2) Avv. Daniela Gattoni, in https://www.jusdicere.it/Ragionando/la-responsabilita-civile-della-madre-peromessa-informazione-dell...

(3) Andrea Rossetti, L'idea di privacy. In: Persio Tincani (ed.), Genesi e struttura dei diritti, 2009.

(4) Fonte: https://www.garanteprivacy.it/regolamentoue/databreach

(5) Avv. Giuseppina Vassallo, in https://www.altalex.com/documents/news/2020/07/01/accertamentopaternita-si-ai-campioni-biologici-rep...

(6) Bruno Saetta, in https://protezionedatipersonali.it/tutela-diritti-e-privacy e https://

protezionedatipersonali.it/limitazioni-protezione-dati

(7) Arturo Carlo Jemolo