Rimessa alle Sezioni Unite una questione relativa al risarcimento del danno nel giudizio penale a seguito di estinzione del reato per intervenuta prescrizione

La Corte di Cassazione Sezione IV, nell’ordinanza n. 78 del 02.07.2023, ha affrontato la problematica relativa al caso in cui il Giudice penale (in questo caso, di appello), una volta dichiarato estinto il reato per prescrizione, si debba pronunciare sulla domanda di risarcimento del danno avanzata dalla parte civile.

Tale fattispecie è disciplinata dall’art. 578 comma 1 cpp, che dispone quanto segue: “quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

In particolare, la questione – per risolvere la quale la stessa Sezione ha rimesso la causa alle SSUU – è la seguente: se, nel giudizio di appello promosso avverso la sentenza di condanna dell’imputato anche al risarcimento dei danni, intervenuta l’estinzione del reato per prescrizione, il giudice debba pronunciarsi sulle statuizioni civili sulla base della regola di giudizio processual-penalistica dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” ovvero di quella processual-civilistica del “più probabile che non”.

La questione si è posta perché, mentre l’art. 533 comma 1 cpp stabilisce che “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, nel diritto processuale civile non vi è una norma analoga e pertanto la giurisprudenza ha elaborato il criterio del “più probabile che non”, ossia: il nesso di causa, in tema di responsabilità civile, è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro).

• La tesi secondo cui, nel caso in cui il reato si sia prescritto, il Giudice penale, per accertare il nesso causale tra il reato ed il danno, debba utilizzare il criterio penalistico dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, poggia sui seguenti argomenti.

La Corte, nell’ordinanza in commento, richiama la sentenza a SSUU n. 6141 del 25.10.2018, la quale aveva affermato quanto segue: “non può dubitarsi che la decisione che accoglie l’azione civile esercitata nel processo penale costituisca una pronuncia di condanna che presuppone l’accertamento della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato, secondo quanto espressamente stabilito dagli artt. 538 e 539 cpp, e che dunque, in presenza di siffatta situazione processuale, all’imputato debba essere riconosciuto lo status di “soggetto condannato”, sia pure soltanto alle restituzioni ed al risarcimento del danno”.

Quindi: la sentenza che decide sul risarcimento implica che l’imputato debba comunque essere stato giudicato come “colpevole per il “reato”, e non come “colpevole per il danno causato dal reato”; pertanto, l’imputato condannato al risarcimento assume comunque la qualifica di soggetto “condannato”.

Cosa comporta tale principio?

Che, siccome il Giudice, al fine della condanna al risarcimento, deve procedere all’accertamento della colpevolezza dell’imputato, è come se quest’ultimo venisse giudicato due volte: la prima volta, mediante l’accertamento del reato ai fini della sanzione penale; la seconda volta mediante l’accertamento del reato ai fini civilistici.

Questo è il ragionamento che aveva fatto la Corte d’Appello di Lecce, la quale, con ordinanze del 06.11.2020 e dell’11.12.2020, aveva sollevato innanzi alla Corte Costituzionale la questione di legittimità dell’art. 578 cpp, in quanto tale norma impone al Giudice, investito della domanda risarcitoria, di formulare sostanzialmente un nuovo giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato, sebbene questa sia stata esclusa a seguito dell’estinzione del reato per prescrizione. Ciò andrebbe a ledere il principio della presunzione di innocenza di cui all’art. 117 comma 1 Cost. ed all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 182 del 07.07.2021, ha dichiarato infondata la questione, in quanto l’art. 578 cpp ha come scopo quello di tutelare la parte civile ed esso non prevede che il Giudice debba formulare un nuovo giudizio sulla responsabilità penale; il Giudice deve accertare solo se sia integrata la fattispecie civilistica dell’illecito aquiliano di cui all’art. 2043 c.c. .

Di conseguenza, tale accertamento non deve essere effettuato in base al criterio dell’“alto grado di probabilità logica”, che solitamente caratterizza la verifica sull’esistenza del nesso causale tra la condotta e l’evento; esso deve, invece, essere eseguito in base al criterio del “più probabile che non” (o della “probabilità prevalente”), il quale caratterizza la verifica sull’esistenza dell’illecito civile.

Tuttavia, su questo aspetto vanno fatte delle riflessioni.

La Corte d’Appello di Lecce parlava di “nuovo giudizio sulla responsabilità penale dell’imputato, sebbene questa sia stata esclusa a seguito dell’estinzione del reato per prescrizione”.

Il concetto di “nuovo giudizio” richiama quello del c.d. “ne bis in idem processuale”, disciplinato dall’art. 649 cpp, il quale dispone quanto segue: “l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze …”.

Pertanto, non può essere sottoposto a nuovo procedimento, e cioè ad un nuovo accertamento della responsabilità penale, chi abbia subìto una sentenza di condanna oppure abbia ottenuto una pronuncia di proscioglimento.

Quello della prescrizione del reato, però, è un caso diverso: qui non c’è mai stato un “primo” accertamento della responsabilità penale, in quanto il reato si è prescritto; quindi adesso, se il Giudice penale, per pronunciare la condanna al risarcimento, deve prima accertare la responsabilità penale, non si configura, a differenza di ciò che diceva la Corte d’Appello di Lecce, un “nuovo” accertamento, ma si ha, piuttosto, un “primo” accertamento; in precedenza si era “tentato di accertare” il reato, ma questo tentativo non è andato a buon fine in quanto il reato si è prescritto; la prescrizione è alternativa alla pronuncia di condanna o proscioglimento di cui all’art. 649 cpp; adesso, anche se solo ai fini della condanna risarcitoria, viene fatto un nuovo accertamento, che, se si concluderà nei tempi e nelle forme previsti, costituirà il “primo ed unico” accertamento del reato.

Pertanto, non sussiste il “divieto di secondo giudizio” previsto dall’art. 649 cpp. perché tale divieto si applica solo quando venga disposto un nuovo accertamento della responsabilità penale per un soggetto che è già stato comunque giudicato, o con un proscioglimento oppure con una condanna, e non anche quando tale nuovo accertamento venga disposto dopo che il reato è prescritto, in quanto la prescrizione è cosa diversa dalle pronunce di cui sopra.

La conseguenza è che, nel caso di prescrizione del reato, il Giudice penale, per accertare il diritto al risarcimento del danno, può, senza alcuna preclusione, accertare la colpevolezza per il reato (e non per il danno), in quanto, appunto, l’intervenuta prescrizione vuol dire che tale colpevolezza non era mai stata accertata prima.

Ne deriva che il Giudice penale, per poter sancire l’obbligo, a carico dell’imputato, di risarcire il danno, dovrà attenersi all’art. 533 comma 1 cpp, il quale dispone che l’imputato può essere condannato solo se risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio, ragion per cui l’obbligazione risarcitoria potrà essere ritenuta sussistente solo all’esito di un’istruttoria approfondita.

A ciò si aggiungano la seguente ulteriore considerazione.

Ai sensi dell’art. 176 ultimo comma c.p., “la concessione della liberazione condizionale è subordinata all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell'impossibilità di adempierle”.

L’adempimento dell’obbligazione risarcitoria condiziona la possibilità di fruire di un beneficio, il quale permette di sottrarsi all’esecuzione della pena comminata a seguito dell’accertamento del reato: se non viene adempiuta, il beneficio non può essere concesso.

Tuttavia, sono fatti salvi i casi di impossibilità di adempimento da parte del condannato. Se sussistono questi casi, il beneficio può essere comunque concesso e quindi la legge penale prevale sul diritto al risarcimento di cui alla legge civile.

L’impossibilità di adempiere alle obbligazioni (ivi compresa quella risarcitoria) è disciplinata dall’art. 1256 c.c., il quale, al comma 1, prevede che “l'obbligazione si estingue quando, per una causa non imputabile al debitore, la prestazione diventa impossibile”.

Quindi la norma penale, quando dice che in caso di impossibilità della prestazione il beneficio può essere comunque concesso, non fa altro che ribadire quel concetto di “estinzione dell’obbligazione” che è previsto dalla norma civile e per effetto del quale la suddetta impossibilità libera il debitore.

Da ciò si potrebbe desumere che l’accertamento del danno debba essere eseguito secondo i criteri civilistici e non penalistici?

Sembrerebbe di no, perché nel caso dell’art. 176 ultimo comma c.p. l’equazione tra norma penale e norma civile viene affermata in merito ad una fase – quella dell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria – che è successiva all’accertamento del danno, il quale è la fonte di tale obbligazione.

 • La diversa tesi secondo la quale, nel caso in cui il reato si sia prescritto, il Giudice penale, per accertare il nesso causale tra il reato ed il danno, deve utilizzare il criterio civilistico del “più probabile che non”, anziché quello penalistico dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, poggia sull’art. 198 c.p., il quale stabilisce che “l'estinzione del reato o della pena non importa l'estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato”. Quindi, anche se il reato si estingue, l’obbligazione risarcitoria resta valida.

Il venir meno, a causa dell’estinzione, del presupposto del risarcimento, e cioè del reato, non determina il venir meno dell’obbligazione che ne consegue.

In ambito penale, il rapporto di causalità tra l’evento reato e la conseguenza risarcitoria permane anche nel caso in cui il primo cessi, a seguito dell’estinzione per prescrizione, di assumere rilevanza ai fini appunto penali. Proprio questo permanere del nesso causale dimostra che l’illecito civile (danno) è autonomo rispetto all’illecito penale (reato).

Se il principio fosse stato quello in base al quale l’estinzione del reato determina l’estinzione anche dell’obbligazione risarcitoria, e quindi quello per cui il mancato accertamento (vedi estinzione) del reato comporta il venir meno del diritto al risarcimento, allora si sarebbe potuto da ciò ricavare il principio secondo cui, nell’ipotesi inversa, l’accertamento del danno dipende strettamente dall’accertamento del reato, e quindi il danno deve essere accertato secondo il criterio penalistico dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Ma la norma stabilisce il meccanismo inverso, che è quello dell’autonomia dell’illecito civile rispetto a all’illecito penale.

Di conseguenza, vista questa autonomia sotto il profilo sostanziale, l’illecito civile dovrebbe essere accertato secondo i criteri per esso comunemente previsti, ossia in base al criterio del “più probabile che non”. Sarebbe contraddittorio che, nonostante tale autonomia, l’illecito civile dovesse continuare ad essere accertato in base al criterio penalistico dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”.

Quindi, ai fini della prova del danno, è sufficiente che ne venga accertata la “probabilità prevalente”, criterio che si applica in sede civile.

 L’art. 162 ter c.p. dispone quanto segue: “nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione, il giudice dichiara estinto il reato, sentite le parti e la persona offesa, quando l'imputato ha riparato interamente, entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e ha eliminato, ove possibile, le conseguenze dannose o pericolose del reato”.

Qui la sequenza è questa: prima il danno deve essere stato provato; poi l’imputato lo risarcisce; a seguito del risarcimento, il reato si estingue.

Ma come è stato provato questo danno? Con il criterio penalistico dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” oppure con quello civilistico del “più probabile che non”?

Il reato in questo caso non si è estinto: l’unico modo per estinguerlo è che il danno, già dimostrato, venga risarcito.

Se il reato non si è estinto, e quindi se la rilevanza penale del fatto reato è tutt’ora viva e presente nell’ordinamento, ciò vuol dire che il danno nel frattempo dovrà essere stato provato con il criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”: altrimenti si avrebbe un meccanismo per cui, a fronte della (persistente) rilevanza penale del fatto, il quale è stato accertato secondo le regole del diritto penale, gli effetti (risarcitori) del fatto stesso vengono accertati in base al criterio civilistico del “più probabile che non”.

Proprio per questa ragione, allora, nel diverso caso in cui il reato si sia estinto per prescrizione, ossia nell’ipotesi in cui il fatto non sia più penalmente rilevante per l’ordinamento, si dovrebbe ritenere che il danno debba essere accertato secondo il criterio civilistico sopra citato.

 • Per individuare quale delle due tesi sopra esposte possa considerarsi preferibile, forse un modo potrebbe essere quello di concentrarsi su quello che è il rapporto tra azione civile ed azione penale, disciplinato dall’art. 75 del cpp, che così dispone: “l'azione civile proposta davanti al giudice civile può essere trasferita nel processo penale fino a quando in sede civile non sia stata pronunciata sentenza di merito anche non passata in giudicato. L'esercizio di tale facoltà comporta rinuncia agli atti del giudizio; il giudice penale provvede anche sulle spese del procedimento civile”.

Se il trasferimento dell’azione civile in sede penale comporta la definitiva rinuncia agli atti del giudizio civile, tale rinuncia dovrebbe essere intesa anche come impossibilità di chiedere al Giudice penale di accertare il nesso causale tra reato e danno secondo le modalità previste dal diritto processuale civile, e cioè secondo il criterio del “più probabile che non”. Una volta trasferita l’azione civile in sede penale, l’accertamento del nesso causale dovrebbe essere sottoposto interamente alle regole del processo penale, e pertanto il medesimo dovrebbe essere eseguito sulla base del criterio dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, ossia in un modo molto più rigido, scrupoloso ed approfondito di quello che solitamente caratterizza l’accertamento del nesso causale nel processo civile.

Una riprova di ciò è costituita dall’art. 82 comma 3 cpp, a norma del quale, una volta revocata la costituzione di parte civile, “il giudice penale non può conoscere delle spese e dei danni che l'intervento della parte civile ha cagionato all'imputato e al responsabile civile”: la conoscenza, da parte del Giudice penale, delle questioni relative al risarcimento, viene meno nel momento in cui la parte civile decide di revocare la costituzione di parte civile, ossia stabilisce di non proseguire l’azione civile in sede penale. Da ciò si ricava che, nell’ipotesi inversa, ossia quella in cui la costituzione di parte civile non venga revocata, l’accertamento del nesso di causalità tra reato e danno rimane sotto la esclusiva giurisdizione del giudice penale e quindi esso deve essere effettuato secondo i criteri del processo penale.

 Va, tuttavia, anche considerata una cosa.

Qui si sta parlando del caso in cui il Giudice penale si pronunci sulla domanda risarcitoria dopo aver dichiarato il reato estinto per prescrizione.

Mentre la rinuncia al risarcimento in sede penale, formalizzata mediante la revoca della costituzione di parte civile, è frutto di una libera scelta del danneggiato dal reato, la prescrizione del reato è imputabile, in via esclusiva, all’inerzia degli organi giurisdizionali.

Se, nel caso della prescrizione del reato, il nesso causale tra reato e danno venisse accertato secondo il criterio civilistico, meno rigido, del “più probabile che non”, ciò potrebbe costituire, a favore della stessa parte civile, una sorta di “compensazione” per l’intervenuta prescrizione, la quale naturalmente ha causato un diniego di giustizia a danno della medesima parte civile in quanto le ha impedito di vedere accertato il reato e quindi di soddisfarsi con quella che avrebbe essere potuto un’ipotetica condanna dell’imputato.

Tale “compensazione” potrebbe suscitare delle perplessità in quanto la prescrizione è un rischio connaturato allo svolgersi del processo, ed essa potrà, tutt’al più, legittimare l’irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti degli organi inquirenti, ma non potrà diventare strumento di perenne “baratto” tra Stato e parte civile nel senso di consentire a quest’ultima di ottenere una tutela risarcitoria secondo le regole del diritto civile.

Tuttavia, nel diritto processuale penale esiste uno strumento compensativo che è quello del giudizio abbreviato: l’imputato rinuncia a difendersi in dibattimento, permettendo quindi allo Stato di risparmiare i costi che deriverebbero da un procedimento giurisdizionale pieno, ed in cambio lo Stato gli riconosce uno sconto di pena. In questo caso, il “premio”, consistente in tale sconto, viene dato all’imputato per aver questi rinunciato a difendersi e quindi per non aver reso obbligatorio lo svolgersi del giudizio. Nel caso della prescrizione del reato, il “premio”, consistente nell’ottenere la tutela risarcitoria in base ad un criterio meno rigido (“elevata probabilità”, e non “ragionevole certezza”), verrebbe dato alla parte civile per aver essa dovuto subire gli effetti della prescrizione del reato. Nel primo caso, viene dato un premio per aver evitato, in base ad una propria libera scelta, lo svolgersi del giudizio secondo le forme ed i tempi ordinari; nel secondo caso il premio verrebbe dato per non aver potuto ottenere, causa inerzia degli organi giurisdizionali, che il giudizio si concludesse con una pronuncia e cioè che venissero rispettati i tempi del giudizio. Non si comprende per quale motivo un beneficio possa essere concesso all’imputato per aver rinunciato a difendersi, e non possa invece essere concesso alla parte civile per non aver questa potuto vedere finalizzato, mediante il corretto adempimento da parte degli organi giurisdizionali e quindi mediante la conclusione del procedimento, il proprio diritto di difesa.



Avv. Stefano Taddeucci