Uno sguardo d’insieme sulle responsabilità dei pubblici dipendenti nei confronti della p.a.
Nell’individuare le responsabilità alle quali possono incorrere i soggetti pubblici, l’art. 28 della
Costituzione, dopo aver menzionato quella civile e penale, ipotesi di responsabilità riconoscibili in
capo a ciascun soggetto persona fisica, fa specifico riferimento a forme di addebito, quali quella
amministrativa e/o contabile, applicabili solo a coloro i quali si trovano in rapporto di servizio con
l’amministrazione, ossia ai pubblici funzionari.
Sia quella amministrativa che quella contabile sono fattispecie di responsabilità verso la p.a.
caratterizzate dal fatto che il pubblico dipendente è chiamato a risarcire un danno alla stessa
cagionato.
Quali forme tipiche di responsabilità dei pubblici dipendenti, sebbene non espressamente previste
dall’art. 28 citato, si devono altresì aggiungere la responsabilità disciplinare, quale forma di
addebito propria di ogni rapporto di lavoro subordinato, e la responsabilità c.d. dirigenziale, quale
fattispecie riferibile solo a coloro i quali rivestano all’interno dell’amministrazione la qualifica di
dirigenti.
Si definisce “amministrativa’’, in particolare, quella fattispecie di responsabilità nella quale possono
incorrere solo coloro i quali siano legati all’amministrazione da un rapporto di servizio, qualora
abbiano cagionato un danno all’ente pubblico nell’ambito o in occasione del suddetto rapporto.
La responsabilità amministrativa è assoggettata ad una normativa speciale, sia dal punto di vista
sostanziale che da quello processuale.
A livello ordinario il fondamento normativo della responsabilità amministrativa viene rinvenuto
negli articoli 82 e 83 della legge di contabilità dello Stato (r.d. n. 2440 del 1932), secondo i quali
l’impiegato che per azione od omissione, anche solo colposa, nell’esercizio delle sue funzioni,
cagioni un danno allo Stato, è tenuto a risarcirlo; la competenza spetta alla Corte dei conti, la quale
valuta le singole responsabilità e può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno
accertato o del valore perduto.
Come previsto dall’art. 1 della l. n. 20 del 1994 (disposizioni in materia di giurisdizione e controllo
della Corte dei conti), la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti
in materia di contabilità pubblica è personale e limitata ai fatti ed alle omissioni commessi con dolo
o colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali.
La colpa grave, afferma la norma, deve essere esclusa quando il fatto dannoso trae la propria origine
dall’emanazione di un atto vistato e registrato in sede di controllo preventivo di legittimità,
limitatamente ai profili presi in considerazione nell’esercizio del controllo.
Il relativo debito si trasmette agli eredi, secondo le leggi vigenti, nei casi di illecito arricchimento
del dante causa e di conseguente indebito arricchimento degli eredi stessi.
Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi
comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, in relazione
al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di
responsabilità.
Nel caso di deliberazioni di organi collegiali, poi, la responsabilità si imputa esclusivamente a
coloro che hanno espresso voto favorevole; qualora il fatto dannoso sia stato causato da più persone,
invece, la Corte deve valutare le singole responsabilità, condannando ciascuno per la parte che vi ha
preso.
L’obbligazione risarcitoria ha dunque natura parziaria ed intrasmissibile: nell’ipotesi di concorso di
più agenti nella commissione dell’illecito, infatti, essa si suddivide tra gli stessi per quote e, inoltre,
in caso di morte del responsabile il debito si trasmette agli eredi solo qualora, per effetto
dell’illecito, questi abbiano conseguito un indebito arricchimento.
Il termine di prescrizione è di cinque anni e decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso,
ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta.
Presupposto imprescindibile per l’affermazione della responsabilità amministrativa è la sussistenza
di un danno erariale, ossia di un pregiudizio alle finanze dello Stato o dell’ente.
La Corte dei conti ha ad oggi abbandonato una concezione del danno erariale in termini
esclusivamente patrimoniali, abbracciando al contrario una nozione più ampia di danno,
comprensiva anche dei pregiudizi aventi carattere non patrimoniale.
Tra i pregiudizi che possono essere risarciti, si osserva, rientra anche quello consistente nella
lesione alla credibilità e alla reputazione dell’ente pubblico, ovvero il c.d. danno all’immagine.
Come espressamente affermato dalla l. n. 102 del 2009, tuttavia, tale danno può trovare
risarcimento solo nel caso in cui sia derivato dalla commissione di un fatto costituente reato; il
termine di prescrizione è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale e, in caso di
condanna, il pubblico ministero informa quello contabile affinché l’azione sia promossa nei
successivi trenta giorni.
Nell’ambito della nuova concezione di danno erariale, d’altra parte, vengono ad oggi ricompresi
anche quei pregiudizi derivanti dalla lesione di interessi generali riferibili in modo indifferenziato a
tutti i membri della collettività, come il danno all’ambiente e quello al paesaggio.
Il danno erariale può assumere diverse forme: si definisce diretto, in particolare, quello che si
estrinseca in un pregiudizio subito direttamente dall’amministrazione e consistente in un maggior
esborso o in un minor incasso; è indiretto, invece, quello che l’amministrazione abbia dovuto
rifondere a terzi a causa dei pregiudizi cagionati dai propri agenti; è obliquo, infine, quello che sia
stato cagionato ad amministrazioni od enti pubblici diversi da quelli di appartenenza.
La responsabilità amministrativa presuppone altresì la sussistenza di un rapporto di servizio tra
l’ente pubblico ed il soggetto che ha provocato il danno.
Come osservato dalla giurisprudenza contabile, tuttavia, non è necessario che l’agente svolga per
l’amministrazione un’attività subordinata con professionalità e stabilità, essendo sufficiente che lo
stesso sia stato investito di un’attività funzionale agli scopi della p.a.
Secondo quanto ritenuto, in particolare, ai fini del riconoscimento della giurisdizione della Corte dei
conti per danno erariale non deve aversi riguardo alla qualità del soggetto che gestisce il denaro
pubblico, il quale può anche essere un privato, bensì alla natura del danno e degli scopi perseguiti.
Ai fini della sussistenza della responsabilità amministrativa, d’altra parte, è necessario che il danno
erariale sia stato cagionato nell’esercizio delle funzioni alle quali il dipendente è adibito.
A tal proposito, si ritiene sufficiente che la condotta dannosa posta in essere sia connessa con i
compiti di servizio da un nesso di occasionalità necessaria, ovvero che il loro svolgimento abbia
quantomeno facilitato la produzione del danno.
Si definisce “contabile”, invece, quella particolare tipologia di responsabilità per danno erariale la
quale è imputabile a tutti coloro che, a qualunque titolo, abbiano il maneggio di denaro o beni
pubblici.
La responsabilità contabile presuppone la sussistenza di qualsivoglia irregolarità commessa nella
gestione del denaro o del bene appartenente all’amministrazione, dalla quale sia derivato un danno
per la p.a.
Coloro i quali hanno la disponibilità di denaro o beni pubblici assumono la qualifica di agenti
contabili e sono sottoposti ad uno specifico obbligo di rendiconto, il quale viene assolto attraverso
la presentazione alla Corte dei conti del risultato della loro gestione.
A seguito della presentazione del conto, si apre un giudizio che prescinde dalla sussistenza di una
controversia e nel quale spetta all’agente dimostrare che eventuali ammanchi non siano dovuti ad un
proprio comportamento viziato da dolo o colpa grave.
Si definisce “disciplinare’’, ancora, quella forma di responsabilità che trova il proprio
riconoscimento nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato, conseguendo alla violazione delle
disposizioni che lo regolano.
Tale forma di responsabilità si concreta nell’inflizione di sanzioni a seguito di condotte che non
trasgrediscono l’ordinamento generale, ma che si pongono in contrasto con la disciplina del
rapporto di lavoro.
A seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze della p.a., la responsabilità
disciplinare del pubblico dipendente non si differenzia da quella prevista in capo a ciascun altro
lavoratore subordinato.
Da ultimo rimane da analizzare la responsabilità dirigenziale, ovvero quella particolare forma di
responsabilità a cui possono andare incontro solo i pubblici dipendenti che rivestono la qualifica di
dirigenti.
Come previsto dall’art. 4 del Testo Unico del pubblico impiego (d.lgs. n. 165 del 2001), gli organi
di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico/amministrativo definendo gli obiettivi ed i
programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni,
verificando inoltre la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli
indirizzi impartiti.
Spetta ai dirigenti, invece, l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti
gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica ed
amministrativa dell’ufficio al quale sono preposti, mediante l’esercizio di autonomi poteri di spesa,
di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Sono dunque i dirigenti ad essere responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della
gestione e dei relativi risultati.
Agli organi politici è inibito ogni potere di revocare, riformare, riservare o avocare a sé
provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti.
Al ministro, in particolare, è riservata esclusivamente la facoltà, in caso di inerzia o ritardo, di
fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti,
scaduto il quale può nominare un commissario ad acta che provveda in luogo del dirigente.
L’art. 16 TUPI, inoltre, sancisce la caducazione in capo al ministro del potere di decisione del
ricorso gerarchico avverso gli atti dirigenziali, i quali vengono considerati definitivi e quindi non
più sindacabili in sede amministrativa.
Secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato, per contro, permane la possibilità di proporre i
ricorsi gerarchici impropri, i quali non richiedono la sussistenza di una relazione gerarchica tra gli
organi coinvolti.
Rimane fermo, in ogni caso, il potere del governo di annullare l’atto amministrativo per motivi di
legittimità.
Il nuovo assetto delineato dal legislatore è dunque all’insegna della separazione tra politica e
amministrazione, ossia della previsione di attribuzioni e responsabilità differenti tra il ministro ed il
singolo dirigente.
Al ministro, in particolare, compete la funzione politica propria degli organi di governo, la quale si
estrinseca nella definizione dell’indirizzo dello Stato, attraverso l’individuazione degli obiettivi da
raggiungere e l’esercizio del controllo sul perseguimento degli stessi; al dirigente, al contrario,
spetta la gestione amministrativa, ossia il compimento di quanto necessario per la soddisfazione
degli obiettivi imposti.
La conseguenza di tale nuovo assetto organizzativo è la previsione di una specifica forma di
responsabilità in capo ai dirigenti, nel caso in cui non pervengano al raggiungimento degli obiettivi
stabiliti ovvero non ottemperino alle istruzioni ricevute.
Tale responsabilità ha la funzione di assicurare che l’attività dei dirigenti sia nel suo complesso
volta al perseguimento dell’interesse pubblico e tesa quindi al raggiungimento degli scopi prefissati.
Il fondamento normativo della responsabilità dirigenziale è l’art. 21, comma 1, TUPI, secondo il
quale il mancato raggiungimento degli obiettivi, accertato attraverso le risultanze del sistema di
valutazione, ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa
contestazione e ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare, l’impossibilità di rinnovo
dell’incarico dirigenziale.
In relazione alla gravità dei casi, d’altra parte, l’amministrazione può, previa contestazione e nel
rispetto del principio del contraddittorio, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione
dei ruoli di cui all’art. 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del
contratto collettivo.
La responsabilità dirigenziale può altresì conseguire dalla violazione dell’obbligo di controllo
sull’operato dei funzionari sottoposti.
A differenza di quanto avviene nelle altre ipotesi, tuttavia, in caso di omessa vigilanza è applicabile
la sola sanzione economica del decurtamento di parte della retribuzione.
Come previsto dall’art. 63, comma 1, TUPI, sono devolute alla cognizione del giudice ordinario, in
funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze
delle pubbliche amministrazioni, salvo quelle riguardanti le procedure ad evidenza pubblica, incluse
le controversie concernenti il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità
dirigenziale.
Secondo l’interpretazione prevalente, gli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, i quali non
conseguono a procedura concorsuale, conservano la loro natura privata in quanto atti interni di
organizzazione; si tratterebbe, pertanto, di determinazioni assunte dall’amministrazione con la
capacità ed i poteri propri del privato datore di lavoro.
Per tale concezione, dunque, la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie relative a
conferimento e revoca dei suddetti incarichi deve considerarsi non esclusiva.
Di diverso avviso è invece un orientamento minoritario, secondo il quale l’atto di conferimento
dell’incarico dirigenziale avrebbe in realtà carattere pubblicistico in quanto espressione di un potere
autoritativo dell’amministrazione.
Ne consegue, si osserva, che la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie relative a tale
conferimento, avendo questo carattere amministrativo, dovrebbe considerarsi esclusiva.
Avv. Riccardo Cuccatto